La mano

“Ma ora aveva realizzato che ad un certo punto bisogna fare di necessità virtù, se non ci si vuole arrendere o uscire pazzi, bisogna accettare i compromessi, le sfumature, per causa di forza maggiore.”

(Nella foto, Statua di discoforo, fonte Internet)

Il giorno in cui Cristoforo Mezzagra tornò a casa senza una mano, trasportato a braccia da due suoi compagni di lavoro, come lui braccianti nei campi altrui, urlava e piangeva come un bambino, bestemmiando come pare facciano i turchi. La mano mancante, per fortuna, se di fortuna si può parlare in una circostanza così spiacevole, era quella destra, circostanza favorevole stante l’essere lui mancino. Nessuno dei familiari presenti, la moglie e l’anziano padre, si chiese, come sarebbe stato logico, perché non fosse stato trasportato in ospedale. Una possibilità del genere era preclusa a priori dalla natura irregolare del lavoro svolto e dal nome del datore del lavoro irregolare, don Saverio Sciarra. La ferita, pur arginata alla meglio con pezzi di stoffa ricavati da sacchi e teloni, sanguinava in maniera cospicua. Fu prontamente chiamato l’uomo di medicina più vicino disponibile, noto per perizia e discrezione, il veterinario Nunzio Cimarra, fortunatamente già rincasato per il pranzo. D’altra parte solo di tamponamento delle perdite di sangue e sutura dell’estremità tranciata si trattava, essendo la mano stessa sparita e spappolata negli ingranaggi della mietitrebbia. Nessun lavoro di saldatura e ricucitura fine da effettuare, quindi, ma un grossolano intervento per evitare una emorragia, pienamente gestibile da chi era più avvezzo a manovrare su animali piuttosto che su esseri umani. Infatti Cristoforo Mezzagra fu sistemato a dovere, dopo essere stato adeguatamente sedato con una ridotta dose di sedativo per bovino, probabilmente più per interromperne l’agitazione da tarantolato, le urla e la sequela spaventosa di bestemmie che per pietà per il suo dolore. Dopo tre giorni di febbre alta, di delirio, urla e imprecazioni alternate ad un sonno simile alla morte eterna, ritrovò la pace ed un barlume di ragione, insieme ad un appetito robusto che, non riuscendo un leggero brodino di carne di quaglia a saziare, fu infine soddisfatto da tre bistecche di vitella, parte delle regalie offerte dagli amici più intimi, che si privarono del loro per manifestare la vicinanza al povero disgraziato compagno. Di barlume e non di completo recupero della ragione si trattava, sicuramente, visto che tra la sorpresa generale dichiarò che poiché lui aveva perso una mano, anche don Saverio Sciarra avrebbe dovuto rinunciare ad una delle sue. Margherita Callura, sua moglie, ascoltando queste parole si fece il segno della croce, seguita per imitazione da Maria Concetta e Ignazio, i loro due figli, rispettivamente di quattro e cinque anni. Bettino Mezzagra, ormai duro d’orecchi, si limitò ad un cenno di assenso alle parole del figlio, come avrebbe fatto qualunque parola lui avesse proferito. Nunzio Cimarra, che ormai passava due tre volte al giorno per controllare il decorso del suo lavoro extra professionale, ebbe una stretta allo stomaco, ma non diede ad intendere di aver ascoltato le parole dette, preferendo concentrarsi totalmente sulla medicazione della ferita. Padre Nunzio Nicotra, che aveva fino all’ultimo sperato di essere autorizzato a dare al ferito l’estrema unzione, strenuamente ostacolato dal vecchio Bettino, anticlericale fin quasi dalla nascita, ebbe uno dei suoi attacchi d’asma, tanto era l’enormità di quanto aveva ascoltato. Don Saverio Sciarra in altri tempi non sarebbe stato neppure soggetto ad obblighi di legge a tutela dei suoi lavoranti, come tutti del resto, ma ormai le leggi in tal senso erano state fatte, volenti o nolenti, quindi anche lui avrebbe dovuto sottostare ad esse. Tuttavia per don Saverio Sciarra e per quelli come lui la legge era carta straccia, faceva il bello e il cattivo tempo, sufficientemente ricco, ammanicato e vendicativo da stroncare sul nascere ogni tentativo di ricorrere alla legge contro di lui, per quanto estremamente improbabile la cosa fosse. E sicuramente anche Cristoforo Mezzagra non si sarebbe mai sognato di tirare in mezzo la legge per rivalersi contro di lui per la mano persa. Il punto non era quello, non poteva la legge essere tirata in ballo da quelli come lui, per atavica estraneità alla legge stessa e per atavica consapevolezza che certa gente è al di sopra della legge stessa. La giustizia a cui Cristoforo Mezzagra faceva appello con la sua dichiarazione, tra la sofferenza e la rabbia, era quella biblica dell’occhio per occhio e dente per dente, la sola che non facesse distinzione di casta, censo e potenza. Per la verità don Saverio Sciarra, consapevole della sua totale impunità e ignaro di ogni incauto addebito verso la sua persona, provvide a manifestare la sua vicinanza al suo sfortunato lavorante con un accorato messaggio di dolente partecipazione, recapitato da un suo fido collaboratore, al quale aggiunse in maniera più tangibile la paga corrispondente ad un anno di lavoro.  Cristoforo Mezzagra accettò pubblicamente e con riconoscenza il messaggio e la paga, ma sputò sopra quei soldi in privato, alla presenza della sua sola famiglia, rinnovando in tal modo il segnarsi della croce da parte di moglie e figli. Questa volta a Bettino Mezzagra non sfuggì il gesto, ne comprese istantaneamente le motivazioni e sputò anche lui su quella paga da Giuda. Naturalmente, la rivalsa doveva avere i suoi tempi e le sue modalità. Tempi necessari per fare tutto con calma, pianificando le cose attentamente, fino ad essere certi dell’esito e dell’anonimato, non di fronte alla legge, che quello era facile, ma di fronte alla vittima e ai suoi accoliti, il che era più difficile e pericoloso. Modalità adeguate all’offesa e al danno ricevuto, perché le cose vanno fatte con la bilancia, tanto per tanto, senza né rimanere ancora a credito né offrire l’occasione di restare in debito. Mano per mano, allora, niente di meno e niente di più. Anzi, a voler essere precisi, mano destra era stata e mano sinistra doveva essere, perché don Saverio Sciarra era destro. Cristoforo Mezzagra poco alla volta si ristabilì completamente, quindi cercò il modo di minimizzare la sua menomazione e farne anzi uno strumento di vantaggio piuttosto che di impedimento. Giustino Recchia, amico di vecchia data e sellaio di mestiere, provvide a dotare il moncone mancante della mano di una specie di guaina in cuoio, quasi come una coppa, che tramite un sistema di lacci si fissava saldamente e forniva protezione, rigidezza e forza all’avambraccio, facendo di esso più o meno un robusto bastone. L’insieme della mano sinistra dominante e dell’avambraccio destro potenziato costituiva uno strumento di lavoro e di azione addirittura superiore a quello delle due mani integre. Don Saverio Sciarra, saputo che tutto si era messo per il meglio, che la mano perduta era ormai un ricordo lontano e un’appendice ormai superata dalla nuova ritrovata e ristabilita capacità operativa, ritenne fosse sua convenienza utilizzare ancora la forza e l’operosità di Cristoforo Mezzagra in svariati compiti nell’ambito delle sue molteplici attività, anche per mostrare ancora urbi et orbi la sua generosità e umanità. Cristoforo Mezzagra fu quindi spesso e volentieri chiamato a lavorare non solo in supporto ai contadini nei campi, ma nella stessa tenuta di campagna, tra magazzini e cantine. Come costringere don Saverio Sciarra a volontariamente rischiare la sua mano sinistra, per poi incidentalmente perderla, per così dire? Cristoforo Mezzagra ci ragionava continuamente sopra. Fargli intravedere la possibilità che in un foro in una parete fossero nascoste delle monete d’oro, facili da prendere allungando una mano, trovando invece una sorta di mannaia? Troppo fantasioso e poco realistico. Manomettere una tagliola per bestie selvagge e indurlo a metterci le mani sopra? Improbabile che lo facesse di persona, inoltre poteva rimanerci coinvolta la mano destra invece che la sinistra, oppure entrambi le mani. Provocare la caduta sulla mano di qualcosa di pesante, una botte o dei tronchi, in maniera da schiacciarla completamente? E come fare? E se invece ci rimetteva testa o gambe? Non riusciva a vedere delle soluzioni percorribili. Cominciò a dormire poco la notte e durante quel poco addirittura a sognare inverosimili circostanze che avrebbero potuto segnare il successo del suo proposito. Sapeva che i francesi durante la rivoluzione avevano usato la ghigliottina per tagliare teste, sognò quindi che per don Saverio Sciarra avessero invece riservato un trattamento di riguardo, limitandosi a usare l’attrezzo per tranciargli la mano sinistra. Nei paesi arabi, gli avevano detto, ai ladri tagliavano una mano, sognò quindi che don Saverio Sciarra fosse stato colto in flagranza mentre rubava il tesoro di uno sceicco, quindi veniva giustamente punito col taglio della mano. Se destra o sinistra nel sogno non era stato possibile saperlo. Cristoforo Mezzagra non vedeva soluzioni. Stava impazzendo. Non riusciva a concentrarsi sul lavoro, commetteva errori da principiante. Non mangiava quasi più, spiluccava appena, dimagriva a vista d’occhio. A Bettino Mezzagra, anziano e sordo, ma non rincoglionito, le ragioni della sofferenza del figlio risultarono palesi. Una sera lo prese da parte, fuori della porta di casa, seduti insieme a scrutare la luna e a fumare. Tra una sigaretta e l’altra, gli parlò con parole lente e pesate, intramezzate da lunghe pause. Cristoforo, ti conosco come le mie tasche, so che sei una persona giusta che ha ricevuto una ingiustizia, quindi vuoi la giustizia nella giusta misura. Questo ti fa onore e fa onore anche a me che sono tuo padre. Voglio però raccontarti una delle cose che quando ero piccolo mi diceva mia nonna, la tua bisnonna, che di nome faceva Giuseppina e di cognome Sardella. Quando mi incaponivo a fare qualcosa che all’apparenza sembrava semplice, ma io non riuscivo a fare, a volte per mia incapacità, a volte perché mancavano i materiali giusti, altre volte perché mancavano gli attrezzi giusti, diventavo nero dalla tigna, rompevo cose, bestemmiavo. Mia nonna mi calmava con qualche carezza, qualche regalino, quindi mi ripeteva un proverbio antico: chi non può cucire uno strappo, cuce un vestito. Bettino Mezzagra, come avesse fatto uno sforzo enorme per fare questo discorso, avvezzo ormai com’era più ai lunghi silenzi che alle parole, restò poi quieto a guardare la notte. Cristoforo Mezzagra rimase ancora un po’ con lui, poi rientrò in casa e si mise a letto. Quella notte dormì beatamente, come ormai non gli succedeva più da un pezzo. Aveva inteso la saggezza della sua bisnonna, veicolata dalle parole di suo padre. Certo, era dura rinunciare alle proprie convinzioni,  non poteva essere del tutto soddisfatto dell’indicazione ricevuta, della conclusione che nell’impossibilità di portare a termine un piccolo intervento a volte è più semplice e opportuno passare direttamente a realizzarne uno più grande. Era poco incline ai compromessi, per sua innata natura, alle sfumature di colore e alle sottili distinzioni che gente più istruita di lui o soltanto meno scrupolosa riusciva a fare. Il nero è nero e il bianco è bianco, non capiva sinceramente come avrebbero potuto esserci vie di mezzo. Ma ora aveva realizzato che ad un certo punto bisogna fare di necessità virtù, se non ci si vuole arrendere o uscire pazzi, bisogna accettare i compromessi, le sfumature, per causa di forza maggiore. Ritemprato nella mente, recuperò anche la tempra del fisico. Gli bastarono meno di due settimane per cucire il vestito. Era tempo di vendemmia. Nelle vigne di don Saverio Sciarra si lavorava di brutto per la raccolta dell’uva, mentre nei suoi magazzini si lavorava di brutto alle macine e alla spremitura. Persone al lavoro ne erano state messe tante, uomini, donne e bambini, ma sembrava non bastassero mai. C’era di continuo un viavai di gente che andava e gente che veniva, grossi contenitori venivano riempiti e svuotati. Don Saverio Sciarra sembrava amasse questa apparente confusione, forse memore di tempi passati in cui si era lui stesso dato da fare con i lavori pesanti. Si aggirava ora qui e ora là, ammirando l’altrui operosità, con occhi da bambino, quasi passeggiando leggiadro tra l’altrui fatica. Calogero Pagano, uno dei suoi caposquadra, il sabato mattina doveva parlargli per avere delle direttive e lo cercò in lungo e in largo. Pareva che ogni lavorante lo avesse visto in giro poco tempo prima, impegnato a scrutare qualche dettaglio o a dirigersi da qualche parte, ma sembrava essere sparito. Altri uomini furono aggregati alla ricerca e finalmente lo trovarono. Don Saverio Sciarra era in uno dei magazzini, sotto una pesante gerla colma di grappoli d’uva, con tutta evidenza precipitata incidentalmente dalla cima di una catasta. Doveva essere morto sul colpo, da almeno un paio d’ore. Padre Nunzio Nicotra prese parte alla funzione funebre, insieme ad altri parroci che assistevano il vescovo. Tra la moltitudine di persone, signori e gente comune, che era stipata in chiesa, riuscì a distinguere anche Cristoforo Mezzagra, in piedi di lato, vicino ad una colonna. Si fissarono per qualche secondo, poi padre Nunzio Nicotra tossì ripetutamente e si fece due volte il segno della croce.

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