“Ma quale luce spunta lassù dalla finestra? È l’oriente e Giulietta è il sole!”
W. Shakespeare
(Nella foto, Pietro Roi, Giulietta e Romeo, 1882)
Il palco si trasformò in una vera e propria bolgia. Quella che nella rappresentazione teatrale doveva essere solo la simulazione di una rissa di strada, si tramutò da finzione in realtà. Il maestro Maurizio Bordignon aveva insistito sull’importanza di comportarsi proprio come due bande contrapposte di servitori di due famiglie che si odiano, ma che fosse solo per finta, senza esagerare e senza farsi male. Il fatto era che i sei figuranti, tre ragazzi di quinta e tre ragazzi di quarta, gruppo quest’ultimo che comprendeva anche un ripetente, proprio la settimana prima avevano preso parte ad una partita di calcio tra le due classi. L’esito era stato a favore della quarta, col risultato di due a uno, grazie ad un rigore piuttosto discutibile concesso dal maestro di educazione motoria Alfredo Carrocci, in seguito al quale era stata veramente sfiorata la rissa tra le due squadre. Nessuno dei ragazzi presenti sul palco volle quindi lasciarsi sfuggire l’occasione di realizzare quello scontro che qualche giorno prima era stato loro impedito, questa volta quasi pienamente legittimato. Ci dettero quindi dentro con i fendenti e i colpi di punta delle loro spade di legno. La contrapposizione era stata resa più immediatamente percepibile grazie alla trovata di adottare felpe di colore rosso per quelli della classe quinta e felpe di colore blu per quelli della classe quarta. Il clamore della rissa, oltre che dai grugniti dei contendenti e dal contatto delle spade, era sottolineato dalla musica di sottofondo, una selezione dalla Cavalcata delle Valchirie di Wagner sapientemente effettuata dal maestro di musica Francesco Proietti. Furono minuti di grande teatro, con gli attori entrati davvero nella parte loro assegnata. Un mormorio di preoccupazione di diffuse però nella platea, gremita fino all’inverosimile, ben oltre la capienza della sala e della disponibilità di sedie. Il maestro Bordignon avrebbe voluto aspettare ancora, ma decise prudentemente di accelerare i tempi e mandò subito in scena con la spada in pugno Federico Pagano, un biondino di quarta agghindato con camicia rossa e pantaloni chiari, nelle vesti di Benvolio, cugino di Romeo.
L’idea di portare in scena il Romeo e Giulietta era naturalmente stata dello stesso maestro Bordignon. Dopo l’enorme successo della rappresentazione teatrale dell’anno scolastico precedente, organizzata e messa in scena proprio dal maestro, le sue quotazioni erano salite alle stelle. Durante l’estate, in vista sia delle iscrizioni degli alunni alle classe successive che della iscrizione alle nuove classe prime, c’era stata da parte dei genitori una vera e propria processione presso il preside dell’istituto comprensivo al quale il locale plesso di scuola primaria appartenenza. Tutti a premunirsi di avere dal preside, professor Ignazio Lo Giudice, assicurazione che il maestro Bordignon avrebbe fatto anche l’anno successivo parte del corpo docente della scuola primaria. Le armi usate erano state varie, dalle lodi più sincere indirizzate al maestro, alle velate minacce di effettuare le iscrizioni presso la scuola vicina, distante solo qualche chilometro, alle esplicite promesse di rendere la vita impossibile a maestri e preside per tutto il nuovo anno, con un boicottaggio serrato su ogni questione e iniziativa. Qualcuno aveva addirittura ventilato la possibilità di occupare la scuola, impedendo ogni attività didattica. Il problema consisteva nell’essere a tutti noto che il giovane maestro Bordignon, il cui cognome ne denunciava esplicitamente l’origine veneta dei suoi antenati, era un docente precario. Aveva avuto l’anno precedente la supplenza annuale delle classi quarta e quinta, in sostituzione dell’anziana maestra Adalgisa Mellitto, ma non c’era assicurazione alcuna né che la maestra non sarebbe rientrata a scuola né che l’eventuale supplenza sarebbe andata ancora al maestro Bordignon, sempre ammesso che il maestro avesse ancora interesse al ritorno nella stessa scuola, piuttosto che accettare chiamate da altri istituti scolastici. Il preside Lo Giudice, da parte sua, avrebbe certamente voluto ancora il maestro, del quale aveva apprezzato la capacità didattica, la disponibilità e l’estro vulcanico, ma sentiva di avere le mani legate, sia per l’incertezza sulle decisioni della maestra Mellitto che per i vincoli burocratici sul rispetto delle graduatorie ministeriali nell’assegnazione delle supplenze scolastiche. Messo però con le spalle al muro, aveva tessuto abilmente la sua tela. Aveva fatto visita un paio di volte alla anziana maestra, per sincerarsi direttamente del suo stato di salute, giocando subdolamente tra la manifestazione del più imbellente desiderio di averla di nuovo operativa a scuola e la razionale raccomandazione che fosse opportuno protrarre ulteriormente le cure per i postumi degli interventi alle anche. Aveva poi raggiunto telefonicamente il maestro Bordignon, dichiarando il suo più vivo piacere di averlo tra il corpo docente della scuola anche l’anno successivo, sottolineando le incognite e le possibili insidie di un cambio di istituto. Infine, con l’avvicinarsi dell’inizio del nuovo anno scolastico, aveva fatto in modo di tenere ufficialmente nascosto al ministero il posto libero in sostituzione della maestra Mellitto, in maniera che non fosse assegnata la supplenza finché lo scorrimento delle graduatorie non la garantisse al maestro Bordignon. Al suo arrivo a scuola, il maestro era stato accolto come un vecchio e amato collega dagli altri docenti, con entusiasmo dai suoi vecchi alunni di quarta, ora in quinta, con rimpianto dai suoi vecchi alunni di quinta, ormai alla scuola media inferiore, con grande rispetto e aspettative dai suoi nuovi alunni di prima e dai loro genitori. Il preside Lo Giudice già il primo giorno di scuola lo aveva convocato in presidenza, presso la sede centrale dell’istituto comprensivo, per comunicargli ufficialmente che oltre ai suoi compiti didattici standard gli affidava la responsabilità ed il coordinamento di tutte le iniziative extra-didattiche inerenti la scuola primaria, incarico che naturalmente prevedeva un adeguato compenso economico integrativo. In particolare, anche se chiaramente era presto per entrare nei dettagli, aveva l’obiettivo primario di organizzare la tradizionale recita di fine anno scolastico, sia per quanto riguardava le varie esibizioni finalizzate a dare spazio agli alunni e ai loro insegnanti, sia e soprattutto la rappresentazione teatrale vera e propria, il clou dell’evento. Cominciasse quindi a pensare, aveva concluso il preside, allo spettacolo da portare in scena. “Ho deciso per Shakespeare.”, aveva comunicato a febbraio il maestro Bordignon, un adattamento del Romeo e Giulietta. Il preside Lo Giudice aveva immediatamente pensato al tragico finale della tragedia, non proprio l’ideale per scatenare entusiasmi e allegria. Ma poi aveva fatto mente locale al tema trattato l’anno precedente, in via di principio anch’esso tragico, aveva quindi alzato le mani e dichiarato al maestro la completa fiducia nelle sue scelte.
E si era infine arrivati alla tradizionale recita di fine anno scolastico. Il maestro Bordignon, in tutta la sua longilinea magrezza e con la sua potente voce da basso, agiva come maestro di cerimonie. Ad aprire l’evento era stato, come sempre, il coro scolastico, composto da venti ragazzi e ragazze dalla prima alla quinta, rigorosamente quattro alunni per ognuna delle cinque classi del plesso. Il maestro Proietti, dopo il Nabucco dell’anno precedente, aveva optato per un estratto della durata di quindici minuti del Requiem di Mozart. Per la verità, il maestro avrebbe voluto svolgerlo per intero, cinquanta minuti belli pieni, ma era stato convinto a contenerlo in tempi più ragionevoli. L’esecuzione musicale al piano dello stesso maestro Proietti e le performance vocali erano state apprezzate, con un lungo applauso finale, a sottolineare l’orgoglio dei familiari per i coristi più che qualità recepita dal pubblico. A seguire, come tradizione voleva, erano state recitate cinque poesie, una per ogni classe, da alunni preparati dalla maestra d’italiano di seconda e terza, moglie di un docente di matematica delle medie inferiori dell’istituto comprensivo. Aveva poi fatto il suo ingresso i preside Lo Giudice, introdotto con grande enfasi dal maestro Bordignon, per premiare due alunni per classe. Il dispositivo della premiazione, novità introdotta l’anno precedente, prevedeva un buono del valore di cinquanta euro per l’alunno più bravo e un libro per l’alunno meno meritevole, stimolato a migliorarsi. Il preside aveva poi tenuto il suo solito breve discorso, riportando i dati di una recente ricerca statistica che evidenziava come la scuola primaria italiana fosse una eccellenza nel panorama europeo. Gli applausi di fiero campanilismo erano stati scroscianti. Era infine calato il sipario. Il maestro Bordignon si era piazzato immediatamente di fronte la platea, aveva atteso il silenzio assoluto e, con la sua vigorosa voce, aveva recitato l’incipit corale del Romeo e Giulietta “Nella bella Verona, dove poniamo la scena, per antica ruggine scoppia fra due famiglie di pari nobiltà una nuova rissa, nella quale il sangue civile macchia le mani dei cittadini. Dai fatali lombi di due nemici discende una coppia di amanti, nati sotto cattiva stella, le cui sventurate e pietose vicende seppelliscono con la loro morte l’odio dei genitori.” Si era poi fatto da parte ed il sipario era stato alzato, rivelando la Verona medioevale, ricreata tramite due pannelli laterali e uno frontale, sul fondo del palco, rappresentanti palazzi nobiliari. In particolare, quello di destra era destinato ad essere il palazzo Montecchi, quello di sinistra il palazzo dei Capuleti. Solo qualche attimo, quindi erano entrati in scena vociando le due bande rissose e la battaglia era cominciata, solo inizialmente accolta con grandi applausi.
“Separatevi, insensati! Giù quelle spade, voi non sapete quello che fate.”, fu il grido deciso di Federico Pagano, per quanto la sua voce da ragazzino gli consentisse. La rissa lentamente finì, malvolentieri. Ed ecco che dalla sinistra entrò in scena Gabriele Berardi, anche lui di quarta, scuro di carnagione e ben piazzato, nella parte di Tebaldo, della famiglia Capuleti, in camicia blu e pantalone scuro. Anche lui con la spada sguainata, tuonò imperioso “Hai tirato fuori la spada in mezzo a questi vili servi? Volgiti, Benvolio, e guarda in faccia la tua morte.” La replica di Federico Pagano fu conciliatoria “Io sono qui per mettere pace, riponi la tua spada o impugnala per aiutarmi a separare costoro.” Per niente accomodante, Gabriele Berardi lo assalì gridando “Io odio la parola pace come odio l’inferno, tutti i Montecchi e te!” Subito ricominciò la rissa generale, con grida di “Morte ai Montecchi!” e “Morte ai Capuleti!”, mischiate agli applausi, essendo ormai il pubblico caldo e schierato in favore dell’una o l’altra parte. In contemporanea, da dietro il pannello di destra sbucarono la coppia Giuseppe Lupino ed Erika Mazza, mentre da dietro il pannello di sinistra Matteo Serra e Sabrina Busetto, tutti alunni di quinta. I primi a rappresentare il vecchio patriarca Montecchi e la moglie, i secondi il vecchio Capuleti e la moglie, vestiti con preminenza di rosso gli uni e di blu gli altri. Curvi e acciaccati, con barba bianca, i due anziani sembravano ormai incapaci di combattere. Matteo Serra, con voce roca e stanca urlò “La mia spada! Il vecchio Montecchi è qua per provocarmi. Datemi la mia spada!”, mentre Sabrina Busetto cercava di trattenerlo “Un stampella, dategli una stampella piuttosto che una spada!”. A fare da contraltare, Giuseppe Lupino gridò fin quasi a strozzarsi “Miserabile Capuleti! Lasciatemi andare a dargli la lezione che merita.”, mentre Erika Mazza lo bloccava “Ma dove vai? Ti sei visto? Tu non sei più in grado di affrontare un nemico!” La comica e confusa scena era accompagnata da applausi di incoraggiamento, risate, fischi e qualche ululato di gioia. Finalmente, dal fondo del palco comparve il Principe di Verona, elegantemente vestito ma senza alcunché di rosso o blu, impersonato in tutta la sua poderosa stazza da Saverio Tiberi, un alunno di quinta che in un anno era cresciuto incredibilmente di dimensioni. Si fece silenzio e tutti smisero di combattere, riposero le spade nei foderi e si portarono il più indietro possibile. Anche la musica di sottofondo cessò. Saverio Tiberi avanzò verso il centro del palco e inveì verso di loro “Sudditi ribelli, nemici della pace, che versate sangue cittadino, non siete uomini ma belve. Dico a voi vecchio Capuleti e a voi vecchio Montecchi, arrugginiti nell’odio, che turbate con le vostre risse la quiete delle nostre contrade. Se un’altra volta oserete portare scompiglio, vi farò pagare con la vita l’infrazione alla pace. Per oggi vada così. Ora via tutti di qua, pena la morte.” Tutti sparirono dietro le quinte, tranne il vecchio Montecchi, la consorte e Benvolio, che si portarono davanti il pannello di destra. Giuseppe Lupino chiese a Federico Pagano “Ditemi, nipote mio, come è cominciata la rissa?” La risposta fu una sintesi dell’accaduto “La rissa era già scoppiata prima che io arrivassi. Io ho cercato di separarli, ma è arrivato Tebaldo e mi ha lanciato parole di sfida. Il resto lo sapete.” Anche Erika Mazza interrogò il nipote “E dov’è Romeo? Sono contenta che non sia trovato coinvolto nella rissa.” “L’ho visto stamattina, che andava verso il bosco fuori città.”, rispose Federico Pagano. Intervenne ancora Giuseppe Lupino, con voce mesta “L’hanno già visto varie volte in quel bosco, triste e solitario. E anche in casa è sempre malinconico. Non se ne conosce la ragione. Siamo davvero preoccupati.” In quel momento dal fondo entrò in scena un pensieroso Romeo, interpretato da Antonio Rizzuto, un brunetto di quarta, caruccio e vivace. Aveva pantaloni e camicia chiari, ma una manica della camicia era rossa. Vedendolo, Federico Pagano bisbigliò “Ecco Romeo che arriva. Cercherò di sapere cosa lo affligge. Voi andate via, intanto.” Mentre la coppia spariva dietro il pannello del loro palazzo, Antonio Rizzuto avanzò sul palco, verso il cugino. Federico Pagano lo accolse con apprensione “Romeo, hai una faccia! È da un po’ che ti vedo abbacchiato, che ti succede? Hai dei problemi o ti sei innamorato?” Antonio Rizzuto finse dapprima sorpresa, poi rispose, rassegnato alla confessione “Hai indovinato, cugino, sono innamorato di una bella ragazza, Rosalina, ma i miei sentimenti non sono ricambiati.” Sollevato, Federico Pagano replicò “Ma non ti angustiare! Di ragazze belle ce ne sono tante, anche più di questa Rosalina. Sai una cosa? Proprio stasera i Capuleti danno una festa in maschera dove andranno tutti i giovani e le ragazze nobili di Verona. Perché non ci andiamo anche noi, mascherati ovviamente? Sicuramente ci sarà anche Rosalina, ma soprattutto tante altre ragazze, ancora più belle di lei.” Naturalmente, in questi brani di recitazione non mancavano incertezze, errori, intoppi e interventi fuori tempo, per non parlare delle abilità espressive vere e proprie, ma vari suggeritori sparsi negli spazi del palco nascosti al pubblico facevano del loro meglio. In ogni caso, nessuno del pubblico ci faceva caso, incantati com’erano a seguire i loro pargoli che sfoggiavano il risultato delle prove fatte in casa. Antonio Rizzuto, ci pensò sopra, poi rispose “Va bene, mi hai convinto. Ma soprattutto perché potrò rivedere Rosalina.” Uscirono quindi di scena, sulla destra.
Partì una musica romantica, una originale creazione del maestro Proietti. Il pannello di sinistra cominciò a ruotare su sé stesso, mostrando la rappresentazione della sala da ballo del palazzo Capuleti. Ci fu una serie di ingressi sul palco, dopo di che prese forma la scena di tre gruppi di alunni intenti a chiacchierare fra di loro nella sala, due ragazze, due ragazzi mascherati come Zorro e altre tre ragazze. Entrarono poi di nuovo, dalla destra, Federico Pagano e Antonio Rizzuto, entrambi con la maschera di Zorro, si portarono al centro del palco ad osservare la sala. Antonio Rizzuto, indicando una delle ragazze, estasiato disse all’amico “Guarda quella dama. Quanto è bella! Non ho mai visto una donna tanto bella.” Evidentemente, Rosalina era già sparita dalla sua testa. La ragazza indicata era Aurora Ceccarelli, della quinta, una bella e minuta bambina bionda con un accenno di lentiggini, che già l’anno scolastico precedente era stata protagonista di successo della rappresentazione teatrale. Era vestita con un elegante abitino bianco tipo prima comunione. Senza indugio, Antonio Rizzuto le si avvicinò, mentre la ragazza che l’accompagnava la lasciava sola e si univa al gruppo dei ragazzi. “Sei bellissima. Questo è amore a prima vista, il mio cuore è già innamorato di te.”, furono le parole che le rivolse. Aurora Ceccarelli sembrò accettare quelle parole come dolce miele e replicò “Anche tu sei un giovane molto bello e attraente. Il mio cuore già batte forte.” Il maestro Bordignon aveva dovuto essere sintetico ed efficace, adattando il testo originale alle necessità del caso, con un linguaggio forse banale ma che immediatamente rivelasse la nascita del grande amore tra Romeo e Giulietta. Seguì la sconcertante rivelazione: “Io sono Giulietta, dei Capuleti.” e “Io sono Romeo, dei Montecchi”. Si guardarono negli occhi e si abbracciarono, lei pienamente nella finzione della parte, lui che già dalle prove aveva capito che sarebbe stato innamorato tutta la vita della bambina. Tra gli applausi e il giubilo degli spettatori, si separarono di scatto e la scena si svuotò. Il pannello di sinistra ruotò ancora su sé stesso, tornando a mostrare l’esterno del palazzo dei Capuleti, mentre la luce si abbassava, a segnalare l’ambientazione notturna. Le note di My Heart Will Go On si diffusero nell’aria. Lentamente, dal pannello si aprì una finestrella, posta all’altezza di due metri circa, e la bionda Aurora Ceccarelli si affacciò sospirando, stando in piedi su un tavolo. Dal pannello di destra sbucò Antonio Rizzuto, inizialmente disperato e con lo sguardo chino. Accortosi però della ragazza, la guardò ammirato “Ma quale luce spunta lassù dalla finestra? È l’oriente e Giulietta è il sole! Sorgi, bel sole, e fai sparire l’invidiosa luna, che già langue pallida di dolore.” Aurora Ceccarelli declamò il suo amore “O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome, oppure, se non vuoi, giura soltanto di amarmi e io non sarò più una Capuleti.” All’udire le celebri frasi di Shakespeare, il pubblico andò in delirio, ci fu un diluvio di applausi calorosi. I due ragazzi, restarono a guardarsi sognanti, tendendo le braccia l’una verso l’altro. Altre parole il maestro Bordignon non aveva voluto aggiungere per rimarcare l’amore fra i due giovani. La luce calò maggiormente, fin quasi ad oscurare il palco, poi improvvisamente la scena si illuminò di nuovo. In fondo comparvero ancora Antonio Rizzuto e Aurora Ceccarelli, divisi da Calogero Pantano, un alunno di quinta che tutto il plesso della scuola primaria non vedeva l’ora di spedire alle medie inferiori, per liberarsene finalmente, tanta era la confusione che causava tra compagni, maestri e bidelli fin da quanto era arrivato in prima elementare. Quasi a fare da contrappasso al suo innato spirito da diavoletto, ora vestiva l’abito francescano, nelle sante vesti di frate Lorenzo, padre spirituale sia di Romeo che di Giulietta. Sulle note di una marcetta nuziale, celebrò le nozze segrete tra i due giovani “Vi unisco ora nel sacro vincolo del matrimonio. Possa questo sacramento mutare l’odio delle vostre famiglie in un sincero amore.” I tre scomparvero felici dietro le quinte. Qualche secondo dopo Antonio Rizzuto spuntò di nuovo da dietro il pannello di destra, insieme a Nicola Diotallevi, della quarta, nella parte di Mercuzio, parente del Principe di Verona e amico di Romeo. Dal pannello di destra uscirono Gabriele Berardi e Carlo Sanna, uno dei ragazzi che avevano partecipato alla rissa dalla parte dei Capuleti. Gabriele Berardi appena vide Antonio Rizzuto lo affrontò “Proprio te cercavo, Romeo. Ti ho riconosciuto alla festa in maschera, come hai osato venire? Tira fuori la spada.” Antonio Rizzuto, fresco sposo della Capuleti Aurora Ceccarelli, non voleva accettare il duello “Tebaldo, io non ho offeso nessuno, anzi ti voglio bene, nonostante tu non ne conosca ancora la ragione. Il nome Capuleti ora mi è caro.” A queste parole, Nicola Diotallevi si imbestialì e, gridando “Che vile sottomissione! Tebaldo, adesso ti sistemo io.”, sguainò la spada e ingaggiò lui il duello con Gabriele Berardi. Antonio Rizzuto cercò di separarli ma, vedendo il suo amico cadere colpito a morte, gli saltò il sangue alla testa e uccise l’avversario. Una musica triste congelò la scena per qualche secondo, poi lentamente tutti lasciarono il palco, i due cadaveri trascinati per i piedi. La voce di Saverio Tiberi si udì dal fondo “Io Principe di Verona condanno Romeo all’esilio, pena la morte!”
Nella sua riscrittura dell’opera shakesperiana, il maestro Bordignon aveva deciso che a questo punto fosse necessario andare subito al dunque, evitando passaggi che avrebbero richiesto tempo e annoiato la platea. La disperazione di Romeo e di Giulietta per la complicazione della vicenda, l’idea dei Capuleti di far convolare Giulietta a nozze con Paride, il piano di frate Lorenzo di farle bere una pozione che le desse una morte apparente per evitare il matrimonio e fuggire poi insieme con Romeo, il dolore generale e la deposizione di Giulietta nella cripta del cimitero, tutto questo era stato condensato in una sola scena finale. Il pannello di destra cominciò a ruotare, rivelando la raffigurazione dell’interno della cripta a fare da scenario ad un cassettone sul quale giaceva Aurora Ceccarelli. Calogero Pantano comparve a riassumere lo stato delle cose “Dormi Giulietta, abbiamo evitato il tuo matrimonio con Paride con la tua finta morte. Ora farò avvertire Romeo che tu invece sei viva e potrete fuggire insieme.” Uscì quindi di scena. Dalla sinistra del palco entrò invece con dei fiori in mano Giovanni Quaresima, un alunno di quarta coi capelli ricci di un rosso fuoco, nel ruolo dell’affranto Paride, vedovo prima ancora di sposarsi. “Giulietta, io ogni notte verrò a portare fiori sulla tua tomba e a bagnarla con le mie lacrime.”, disse avvicinandosi ad Aurora Ceccarelli. Ma ecco che dal fondo sbucò Antonio Rizzuto, non ancora informato del trucco di frate Lorenzo, che credeva Giulietta fosse morta davvero. Alla vista di Giovanni Quaresima sguainò la spada e l’assalì, ferendolo a morte. Il poveretto si trascinò dietro un pannello per andare a morire fuori dal palco. Antonio Rizzuto si accostò ad Aurora Ceccarelli “Mia amata Giulietta, la morte non ha cancellato la tua bellezza. Sono venuto qui per morire accanto a te, con questo veleno che ho acquistato.” Bevve da una boccetta e si accasciò al suolo. Aurora Ceccarelli lentamente si risvegliò. Alla vista di Antonio Rizzuto morto si disperò e, preso il pugnale dalla sua cintura, si colpì al petto “Felice pugnale, penetra nel mio corpo e lasciami morire.” Crollò sul corpo di Antonio Rizzuto, mentre si diffondevano le note malinconiche della fine della Sinfonia d’Addio di Haydn. Dalle varie parti del palco entrarono in scena tutti gli attori, tristi e a capo chino. Giuseppe Lupino e Matteo Serra, in testa a tutti, alla vista dei due giovani morti si guardarono e si abbracciarono, parlando all’unisono “Fratello Montecchi, a cosa ci ha portato il nostro odio!”, “Fratello Capuleti, la loro morte porti la pace tra di noi.” Qualcuno in platea si lasciò andare ad applaudire, ma in generale la tristezza aveva contagiato tutti, c’era addirittura chi aveva le lacrime agli occhi, quindi se ne stavano tutti in silenzio. Tra la sorpresa generale entrò il preside Lo Giudice, in giacca e cravatta, portandosi al centro del palco. “Shakespeare ha chiuso qui la tragedia. Ma io sono il preside e chiedo al Signore Dio dell’Universo di cambiare l’esito della vicenda.”, disse. Si diffuse una musica celestiale, ancora una composizione originale del maestro Proietti. Con passo sicuro, barba, baffi e capelli bianchi, sandali e una tunica celeste che l’avvolgeva tutto, con le braccia allargate e i palmi delle mani bene in vista, dal fondo apparve il maestro Bordignon e si avvicinò ai due sfortunati amanti. “Credo proprio necessario un mio intervento. La morte non può trionfare sull’amore!”, proclamò. Stese poi le mani su di loro “Che la vita ritorni in voi! Romeo e Giulietta, rialzatevi e siate felici.” Antonio Rizzuto e Aurora Ceccarelli riaprirono gli occhi, sorpresi, poi si alzarono e si abbracciarono. Il pubblico andò in visibilio, gli applausi durarono a lungo, finché il sipario non calò.
