La luna

“Oh! look at the moon,
She is shining up there.”

Filastrocca popolare inglese

(Nella foto, René Magritte, La Riproduzione Vietata, 1937)

Sentiva una grande pace dentro di sé, qualcosa che poteva essere certamente assimilabile alla felicità, la consapevolezza della piena realizzazione del proprio essere, senza turbamento alcuno a causa di dolori, desideri, aspettative e passioni insoddisfatte. Seduto come stava, sul suo letto perfettamente rifatto e ordinato, pur senza mai scadere nella patetica maniacalità del dettaglio forzato, cosa sottolineata sempre con qualche vezzosa minuzia di imperfezione, fosse un angolino del risvolto del lenzuolo lasciato piegato o un’asola della federa del cuscino rimasta aperta, riusciva a vedere riflesso il suo volto nello specchio verticale disposto sulla parete opposta, che partendo da metà altezza si alzava fino a circa un metro e ottanta dal pavimento. Nonostante non si trattasse di un vero e proprio specchio, ma solo di una superficie laminare riflettente, simile per molti aspetti a quella dei rotoli di alluminio per avvolgere gli alimenti, sebbene più consistente, non essendo permesso tenere nella stanza vetri di alcun genere, riportava in maniera sufficientemente accurata i particolari delle sue fattezze. Poteva quindi distinguere la serenità dei suoi occhi, il viso disteso, il suo sorriso pacato, appena accennato ma senz’altro distintamente percettibile. Si fissò a lungo. I capelli erano arruffati. Si alzò lentamente e si diresse verso l’area bagno, sulla sinistra della parete opposta, delimitata da un muretto a forma di elle che la divideva dal resto della stanza, alto fino ad un metro e ottanta circa, con lo spazio per l’ingresso, privo di porta. Immediatamente di fronte all’ingresso c’era il lavandino e sulla destra, schermato dal muretto, c’era il water. Prese il pettine da una nicchietta ricavata nella parete, riuscì e ritornò a sedersi sul letto, nello stesso identico posto. Tutto il percorso aveva richiesto il suo tempo, naturalmente, ma d’altra parte aveva tutto il tempo del mondo, non c’era fretta alcuna, inoltre non è che camminasse a grandi falcate, più che altro strascicava i piedi, nelle sue comode pantofole. Si pettinò accuratamente, guardandosi nello specchio. Aveva ancora tanti capelli, abbastanza normale per la sua età, prevalentemente lisci, ma c’era da lavorare su qualche ciocca ribelle. Alla fine si ritenne soddisfatto. Si passò il palmo di una mano sulla testa, come per un tocco finale, rimase quindi a rimirare il risultato del suo lavoro. Era certo di avere tra i quaranta e i quarantacinque anni, ma non ricordava propriamente il numero esatto, né questo lo turbava. Quale differenza avrebbe potuto fare avere quaranta o quarantacinque anni, oppure quarantatré, in fondo? Accennò un sorriso più marcato. Vide gli angoli della bocca riflessa nello specchio allargarsi e sollevarsi un poco, mentre comparivano alcuni denti anteriori. Ripeté l’operazione diverse volte, per poi ristabilire il solito composto sorriso. Si sorprese ancora una volta a considerare quanto diverso e rilassato forse adesso il suo sorriso rispetto a quello di alcuni anni prima, anche se non avrebbe potuto dire esattamente quanto prima, se dieci o venti, oppure solo cinque. Rideva sguaiato allora, allargando la bocca all’estremo e mettendo in mostra tutti i denti, a lungo e in maniera frequente, a volte per un nonnulla, per cose per le quali altri non avrebbero nemmeno abbozzato un sorriso. E senza che a ridere fossero anche gli occhi, che invece rimanevano perennemente freddi. Ricordava vagamente alcune delle occasioni in cui aveva riso fino a sganasciarsi le mascelle. Una volta aveva riso per tutto il tempo durante il quale aveva colpito, con una sbarra di ferro raccolta da un mucchio di detriti di mattoni e ferraglia arrugginita, un uomo ad entrambe le gambe, più e più volte, mentre quello urlava e imprecava dal dolore. Più l’uomo urlava e bestemmiava più lui si accaniva nel colpire, più lui sghignazzava allegramente. Solo quando quello aveva cominciato a piangere e a chiedere pietà, implorando di smetterla, aveva sospeso i colpi alle gambe. Aveva interrotto le sue risa. Ma solo per qualche momento, il tempo di riposare un attimo le braccia e illudere l’uomo che la sua sofferenza fosse finita. Poi aveva ricominciato a ridere fragorosamente, mentre riprendeva i suoi colpi furiosi, ma questa volta alla testa di quello. Finché non era rimasto inerte e non aveva emesso più alcun suono. Non saprebbe ricordare i motivi di quel suo comportamenti, di quella sua lontana ferocia e di quella sfrenata allegria. Forse era stato per incarico di qualcuno, oppure per qualche screzio a livello personale, addirittura poteva essersi trattato di uno sguardo poco rispettoso da parte dell’uomo. Magari quello aveva avuto solo la sfortuna di passare vicino a lui in un momento sbagliato, era stato un caso, senza colpa alcuna da parte di nessuno. Aveva la sensazione che all’epoca fossero frequenti simili intemperanze e simili eccessi da parte sua. Qualche flash si presentava alla sua mente ogni tanto, ma come avvolto nella nebbia, come se vedesse non sé stesso ma un’altra persona agire in quel modo sfrenatamente selvaggio. E c’erano sempre le risate incontrollate e gli occhi freddi. Era certo che in quelle circostanze non avesse provato particolari emozioni dentro di sé, oltre il piacere della risata piena. Sicuramente nessuna particolare empatia per le sue vittime. Molto probabilmente aveva provato solo indifferenza. Anche ora quei ricordi e quei flash non implicavano nessun coinvolgimento emotivo, forse solo la consapevolezza di quanto quelle risate assurde fossero prive di senso, così profondamente lontane dalla serenità attuale, dalla pace che provava ora, dalla felicità che sentiva di godere. Avvertì dei leggeri passi alla sua destra, si girò lentamente e vide l’inserviente che entrava dal vano della porta della sua stanza, che poi era solo appunto un’apertura, essendo la stanza priva di porte, come quelle di tutte le altre stanze sul corridoio. Si vide offrire il vassoio con un bicchiere contenente acqua e un piattino con due pillole bianche, della medesima forma e dimensioni. Non sollevò neanche la testa verso il viso del suo ospite, prese lentamente le due pillole con la mano sinistra e il bicchiere con la destra, si portò le pillole alla bocca e poi bevve un piccolo sorso d’acqua, quanto bastava per ingoiare. L’infermiere se ne ritornò da dove era arrivato, senza aver proferito alcuna parola. Lui tornò a guardare lo specchio. Gran bella cosa le pillole, buone. Nel lontano passato si era ingozzato di pillole, di tutti i colori. Anche con la siringa e con le sniffate ci andava giù pesante. Ma era uno strano effetto quello che provocavano quelle pratiche così frequenti, gli davano prima grande esaltazione ed eccitazione, poi grande tristezza e crisi di pianto, un’altalena di eccessi emotivi. Ed era nelle fasi di esaltazioni che rideva tanto, a crepapelle, per qualsiasi sciocchezza, si sentiva forte ed invincibile. Una volta aveva litigato con due poliziotti per una multa di divieto di sosta. Lui era saltato alla gola di uno dei due, quello che stava scrivendo gli estremi della multa su un taccuino. Aveva stretto con forza, mentre gli sghignazzava in faccia con ferocia e con disprezzo. L’altro poliziotto aveva allora preso a colpirlo col manganello sulle braccia, sulle spalle e sulla testa, finché non aveva mollato la presa alla gola dell’altro. Ma quello non aveva smesso di colpirlo, anche quando lui era crollato a terra, aveva continuato a ricevere colpi anche a terra, anche da parte del poliziotto che era stato aggredito, che poi era quello che picchiava di più, ma lui non aveva smesso per un attimo di ridere, mentre sanguinava e cercava di proteggersi la testa con le braccia e le mani. Rideva anche con le manette, quando lo avevano caricato di peso nella macchina di servizio e l’avevano portato via. Che stronzo che era allora, in quegli anni lontani. Era fortunato a trovarsi qui ora, sereno e felice. Sentì il bisogno di andare al bagno. Si alzò e si diresse dietro al muretto, piano piano, passetto dopo passetto, sapeva di poter resistere alla pressione dei suoi liquidi interni per tutto il tempo necessario al tragitto. Si sedette sul water, nonostante si trattasse di liberarsi solo di liquidi, ma era così comodo in questo modo, così igienico e tranquillo. Rimase anche oltre il tempo strettamente necessario, stava molto rilassato, poi si alzò. Si risistemò accuratamente e si lavò bene e a lungo le mani nel lavandino. Quando tornò a sedersi sul letto era soddisfatto di tutte le operazioni svolte. Portò la mano destra allo zigomo sinistro e se lo grattò. Provò un sottile piacere. Sono le piccole cose che danno gioia alla vita. Sentì il bisogno di stendersi sul letto, dritto e supino, con lo sguardo rivolto verso il soffitto, verso la luce bianca perennemente accesa durante il giorno, necessaria vista l’assenza di finestre e di illuminazione naturale. Veniva spenta solo durante la notte, dalle ventuno di sera alle sei della mattina dopo, ma nel lungo corridoio rimaneva accesa una luce diffusa e c’era sempre qualche inserviente che andava e veniva. Lui era come un orologio, appena la luce veniva spenta cadeva in un sonno tranquillo e ristoratore, per poi svegliarsi invariabilmente qualche minuto prima che la luce si accendesse. Attribuiva naturalmente il merito di questa regolarizzazione del suo ciclo veglia-sonno alla tranquillità e armonia della sua vita attuale, oltre naturalmente all’effetto benefico accessorio delle altre due pillole che riceveva mezz’ora prima che la luce si spegnesse, subito dopo la cena serale, leggera e salutare. Durante la sua esistenza precedente, ne aveva un ricordo disordinato ma netto, ai tempi delle deliranti risate, la notte e il giorno spesso si confondevano, si alteravano e si invertivano secondo cicli imprevedibili, frenetici e irregolari. Poteva accadere che dormisse a lungo durante il giorno o vegetasse addirittura nel letto per più giorni, tra rifiuti e sporcizia, passasse invece intere notti senza dormire o più notti di seguito, riempendosi di caffè, alcool e sostanze eccitanti di varia natura e provenienza, tra carte, scommesse, donne e loschi affari. Niente di più lontano e misero rispetto alla pace attuale. Si sentiva traboccante di gioia ora, gioia e felicità. Per nulla al mondo avrebbe cambiato la sua esistenza attuale con quella passata, non c’era prezzo. La luce bianca era come quella della luna nelle notti di luna piena, d’estate. Oh! look at the moon, / She is shining up there; / Oh! Mother, she looks / Like a lamp in the air. / … Pretty moon, pretty moon, / How you shine on the door, / And make it all bright / On my nursery floor! Recitò lentamente e a bassa voce alcuni versi di una poesia in inglese sulla luna, dei lontani tempi delle scuole medie. Provava a studiarle, le poesie, ma poi quando gli veniva chiesto di ripeterle non gli tornavano mai in mente, era come se non le avesse mai lette. Invece a distanza di anni, ora che era rilassato e senza pensieri, spesso gli tornavano alla mente alcuni versi, frammenti, come un effetto a scoppio ritardato, molto ritardato. Fece l’occhiolino alla sua luna, prima con l’occhio sinistro e poi con quello destro. Che pace. Cosa avrebbe mai potuto chiedere di più alla vita? Non c’era niente che lo turbasse, non aveva dolore alcuno, nessun desiderio da appagare né passioni da soddisfare, nessuna aspettativa da realizzare, se non continuare la sua esistenza felice. Vedere la luce accendersi al mattino, guardarsi nello specchio, rilassarsi nel suo bagno, pettinarsi, mangiare, stare disteso sul letto a guardare la sua luna, dormire, aspettare la luce spegnersi, ricevere le pillole. All’inizio, appena arrivato, prima che fosse assegnato a questo reparto e alla sua stanza definitiva, non voleva ricevere pillole, si rifiutava di ingoiarle. Non prendere le pillole che ti danno, gli aveva detto un suo compagno del vecchio reparto, ti tolgono i desideri e la volontà, ti succhiano la vita, ti lobotomizzano chimicamente come a Jack Nicholson in quel cazzo di film sui matti. E aveva fatto davvero il matto allora, per non prenderle. Aveva sghignazzato, urlato, picchiato, si era rifiutato di prenderle e si era difeso con tutte le sue forze, ma le aveva dovute ingoiare alla fine, cosciente o incosciente che fosse. Sorrise ancora a quel vago ricordo lontano, tra le nebbie. Che stupido che era, si disse ancora una volta, un coglione, come sempre era stato in vita sua. Era felice ora, come mai prima, e se era merito di quelle cazzo di pillole che gli davano benedette siano le pillole. La luna si spense.

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