“Mentre entrambi stavano per morire la rana chiese all’insano ospite il perché del folle gesto. ‘Perché sono uno scorpione.’ rispose lui ‘È la mia natura!’”
Esopo(Nella foto, Giacomo Borlone de Buschis, Trionfo e danza della morte, 1484-1485)
Il posto accanto al suo era quasi sempre vuoto. Era un posto in più, di riserva, dove nessuno arrivava per sua scelta, né approdava volentieri se vi era spedito per punizione. Un po’ come accade per certi gironi dell’inferno dantesco, che non riflettono a sufficienza l’eccellenza di una colpa, non portano gloria al condannato e neppure umana pietà, né ammirazione eroica né compassione. Il pensiero va agli ignavi, agli adulatori, ai ladri e ai falsari, ai traditori di basso profilo, ai peccatori in difetti di mediocrità morale, privi di grandi nomi, di travolgenti passioni e di eccellenza nell’empietà della trasgressione. Ovviamente, lui condivideva l’ignominia della posizione, la sua sola differenza era l’essere stabilmente confinato in essa, destinato al contatto col muro laterale piuttosto che col vuoto del ristretto corridoio centrale. E la condivisione si estendeva agli occupanti dei due posti simmetrici oltre lo stretto passaggio centrale, fino al lato con le due finestre affacciate sul cortile di ingresso, due piani più giù. Era tutta l’ultima fila ad essere umiliante e ricettacolo di presenze reiette. Accanto alla finestra sedeva M., uno spilungone eternamente curvo sul piano del banco, intento a sonnecchiare beatamente. La schiena si era ingobbita, nel costante sforzo di conciliare lo slancio verticale che partiva dai reni col livello della testa reclinata, di preferenza schiacciata sul lato sinistro, in modo da mostrare pienamente la faccia affilata a quanti volessero guardarla. I capelli castani rasati corti, da marine, agevolavano la vista. Un viso da ragazzo cresciuto quasi solamente in altezza, magro ma rilassato, quasi a riflettere una grande pace interiore, ad evidenziare la pienezza del sonno dei giusti o forse solo il torpore della sua mente. Quelle rare volte che era possibile vederne gli occhi aperti, il verde sfumato dell’iride colpiva per la sua cavernosa bellezza. Gli sedeva accanto una ragazza con le trecce, R., capelli neri come l’asfalto. Perfettamente composta nella sua postura da studentessa modello, volgeva la testa dritta in avanti, verso la lavagna sulla parete opposta, accanto all’ingresso nell’aula. Poteva sembrare che seguisse tutto con vigile attenzione e grande profitto, interessata e partecipe. La realtà era che il suo sguardo, sebbene intenso e diretto, doveva in un certo qual modo essere scollegato dai contatti cerebrali, non in grado di attivare i meccanismi neuronali che eccitano il pensiero e la ragione, la comprensione e l’elaborazione. Ne derivava una postura passiva e non ricettiva, da forma primordiale immota, da ameba impassibile. Lui, da parte sua, osservava i suoi compagni di posizione spesso e volentieri, con un sentimento di partecipazione e vicinanza, affetto persino, pur consapevole come il suo status fosse sostanzialmente diverso. Lui non difettava di raziocinio e limitazioni sensoriali, era semplicemente muto, incapace di emettere alcun suono. Sarebbe probabilmente stato possibile trovare per lui modalità e strumenti di interazione e valorizzazione alternativi, tali da permettergli di esprimere le sue potenzialità, ma non era stato quello il luogo né il contesto favorevoli. Era stato semplicemente e facilmente allontanato, isolato e relegato, accomunato al destino dei suoi coabitanti, primi e principali destinatari dell’ostracismo in atto, con i quali nessuno aveva mai neppure lontanamente ipotizzato di poter riuscire a interagire. In fondo, a lui ormai non importava più di tanto, non se ne rammaricava né cercava rivalse o vendette. Si fottessero pure, gli altri. Si era rassegnato al ruolo di osservatore, gli piaceva e lo appagava, gli bastava. Non aveva né desiderio né necessità di mettere in atto forme comunicative sostitutive quali gesti, segni, scrittura o disegno. Assorbiva tutto ciò che i suoi occhi carpivano, incamerando e capitalizzando, in attesa di un futuro fatto di altri luoghi e altra gente, oppure solamente di distacco da resto del mondo.
Nell’insieme, l’ultima fila della classe era come un corpo a sé stante, abbandonato al suo destino di esclusione ed emarginazione. Con i suoi inquilini gli altri non comunicavano in alcun modo, né in classe né all’esterno, né durante le lezioni né durante le ricreazioni o le uscite. Non era una cosa di soddisfazione, non portava divertimento né onore. All’inizio, alla loro prima e individuale apparizione, lontano nel tempo, c’erano state quasi immediatamente derisioni, scherzi, forme più o meno accentuate di bullismo verbale e fisico, nel loro insieme anch’esse modalità comunicative, ma poi si erano progressivamente attenuate fino a sparire, non per bontà ma per totale inutilità. E i docenti? La via più facile, l’esclusione e il confinamento. In fondo, avrebbero potuto benissimo ergere un muro immediatamente prima, in maniera da far terminare lì l’aula, promuovere la penultima fila ad ultima, nessuno avrebbe praticamente avvertito la differenza, non sarebbe stato né argomento di riprovazione né di elogio. A ben rifletterci, la cosa era insolita. In altri luoghi era pratica comune relegare all’ultima fila gli elementi più alti fisicamente, per precoce sviluppo o per età, a causa magari di una o più bocciature. Oppure isolarvi gli elementi più vivaci, turbolenti, indisciplinati, disturbatori, ribelli o anche violenti. Oppure i meno bravi, meno studiosi, meno preparati, meno interessati per propria e naturale indolenza, a causa di specifici disturbi di apprendimento di origine neurobiologica o di situazioni di svantaggio sociale, culturale ed economico. Beninteso, nessuna di queste situazioni giustificava quel confinamento spaziale, ma almeno l’avrebbe spiegato con l’esigenza di salvaguardare la pace e il profitto del resto della classe. Ma che senso aveva farne il ricettacolo di forme amorfe, prive di azione, volontà, espressione, personalità e passioni, almeno ritenute tali a torto o ragione? Non avrebbe arrecato danno né fastidio distribuirle omogeneamente all’interno della classe, farne dei centri di compensazione locali di intemperanze ed eccellenze.
Davanti a lui aveva la coppia A. e G., femmina la prima e maschio il secondo. A. stava come lui accanto al muro. Ne poteva ammirare i lunghi capelli biondi sulla nuca, a volte liberamente sciolti, a volte raccolti in trecce, altre volte a coda di cavallo. Poteva avvertirne il profumo, le variazioni di fragranza, gli impercettibili cambiamenti di tono e consistenza col mutare delle stagioni, registrarne le più consistenti modifiche apportate dai parrucchieri. Si muoveva sempre, non stava mai nella stessa posizione per più di qualche minuto. Era brava, capiva le cose al volo, partecipava attivamente alle lezioni. Forse l’unico appunto che poteva esserle rivolto è che parlava tanto, col compagno di banco, con quelli più o meno distanti, con i docenti. Qualche volta gli veniva la tentazione di accarezzarli quei capelli biondi, anche solo con un dito, ma poi ci rinunciava immediatamente, rimproverandosi di aver avuto un desiderio così privo di senso, un segno di debolezza. G. era basso e mingherlino, quasi un bambino al confronto con A. Era contento di starle vicino. L’adorava e la subiva, erano più le volte che aveva il viso rivolto verso di lei che quelle in cui guardava la lavagna. Forse per questo rendeva meno di quanto probabilmente avrebbe potuto. Povero coglione. I due posti davanti ai loro erano occupati dai gemelli T. e K., entrambi maschi, eterozigoti. Che fossero fratelli, per di più gemelli, bisognava che lo rivelassero loro oppure che si consultassero i loro documenti di nascita, perché erano quanto di più diverso ci potesse essere tra due persone. K. era biondino, minuto e dinamico, perennemente girato a parlare con A. dietro di lui, continuamente richiamato all’ordine dai docenti. Era forse il comune colore dei capelli che ne facilitava la relazione. T. era corpulento, scuro di capelli e carnagione, lento e moderato nei movimenti, sempre concentrato a seguire le lezioni. Pareva essere un genio della matematica, ne sapeva forse più dello stesso professore della materia. I due fratelli non parlavano mai tra di loro. A seguire c’erano due ragazze, D. e D., stesso nome, stesso fisico, stessi interessi e movenze. Parlavano solo tra di loro e con i docenti. Sembravano brave e intime sorelle, pur senza esserlo e vivendo lontano l’una dall’altra. Erano le più brave della classe, eccetto naturalmente che in matematica, dove T. non temeva rivali. Due esseri per i quali che la Terra fosse abitata da otto miliardi di persone o solo da loro due non faceva alcuna differenza. I due banchi davanti erano posti trasversalmente, entrambi addossati alla parete, a due metri dalla porta dell’aula. Vi stavano S. e V., due ripetenti, dal fisico atletico, amici e rivali di tifo calcistico. Vivaci, chiacchieroni e rissosi, erano stati sistemati lì, vicino ai docenti, nel disperato tentativo di contenerne le intemperanze. Erano sorvegliati speciali, al centro delle dinamiche di tutta la classe. Rozzi e volgari, pure stronzi. Una volta V. aveva talmente infastidito un professore, che quello gli aveva ordinato di spostarsi al banco vuoto in ultima fila. Già in precedenza era successo e V. aveva vissuto la cosa come una umiliazione profonda e personale. Quella volta si ribellò all’oltraggio, replicò al professore che poteva benissimo andarsene a fanculo, ci andasse lui se lo desiderava. Era stato sospeso per una settimana. Oltre il corridoio centrale, davano le spalle ad M. e R. rispettivamente una ragazza bruna, C., e un biondo tendente al rossiccio, N. Erano fidanzatini, dicevano di loro. Belli e di buone maniere, bravi quanto basta, erano la gioia dei professori, che li coccolavano come stessero covando il prototipo di coppia prematrimoniale, nocciolo base di famiglia sana, perfetta, prolifica e felice, destinata al successo relazionale, professionale ed economico, cittadini integerrimi, operosi e partecipi, orgoglio e modello di uno stato ideale e di una società utopistica. Povere cavie, che probabilmente di lì a qualche anno, magari mesi, si sarebbero stancati l’uno dell’altra, sarebbero fuggiti in direzioni opposte, verso nuove emozioni ed eccitanti trasgressioni. Fidanzatini del cazzo. Davanti a loro c’erano due ragazze, E. e V., carine e gentili. La prima, bruna e formosa, sembrava agognare la vita oltre la finestra che le stava vicino, intenta a rimirarla con frequenza molto superiore a quella della lavagna. Ciò nonostante, aveva un buon risultato scolastico ed eccelleva particolarmente nelle materie umanistiche. La seconda, rosso fuoco di capelli e con lentiggini diffuse, studiava pianoforte e la sua occupazione principale era quella di esercitare le dita delle mani sull’orlo del banco, come fosse una tastiera virtuale solo a lei visibile. Era brava particolarmente in inglese, essendo la madre di origine gallese. Che dire di loro, si era chiesto lui? Fanculo alla vostra placida esistenza. A seguire c’erano ancora due banchi posti di lato, a fare da contraltare ai due sistemati alla parete opposta, sebbene quelli fossero più avanzati, dovendo invece loro lasciare adeguato spazio per la cattedra, i movimenti dei docenti e l’accesso alla lavagna. Vi sedevano F. e L., rispettivamente maschio e femmina. Del primo dicevano che era omosessuale, ma il suo modo di essere, di comportarsi e relazionarsi, era talmente gioviale e rispettoso che raramente era oggetto di derisione, la sua compagnia era invece gradita ed apprezzata. Cazzi suoi, vivi e lascia vivere. Della seconda dicevano che era una zingara. Scura di pelle e quasi selvaggia, altera ed indomabile con i professori, ma sapeva il fatto suo e se la cavava bene un po’ in tutte le materie. Anche per lei, cazzi suoi da dove veniva.
Tutto l’insieme, osservato globalmente dal suo posto nell’ultima fila, gli sembrava avere la forma di una tenaglia. Meglio ancora gli ricordava uno scorpione. Un corpo voluminoso e articolato, terminante con le due chele anteriori, quasi a ghermire cattedra e docenti. L’ultima fila era naturalmente la coda, lunga e trasversale, di cui lui rappresentava naturalmente il pungiglione terminale, col bulbo ripieno di ghiandole velenifere e l’aculeo per iniettare il veleno. Da bambino, una volta aveva preso delle erbe selvatiche che crescevano poco distante dalla casa di campagna della nonna. Le aveva accuratamente sminuzzate con una pietra e poi le aveva date da mangiare ai polli, mescolandoli ai chicchi di granoturco. Aveva voluto insaporirli, renderli più gustosi, come per le spezie con le quali la nonna diceva di rendere più appetitose le sue pietanze. Ne erano morti tre. La nonna aveva detto che probabilmente avevano mangiato delle erbe velenose, non erano più buoni neanche da fare con le patate. Lui c’era rimasto male, si era sentito in colpa, ma non aveva osato confessare di essere il responsabile inconsapevole dell’avvelenamento. Era come guardare il mondo dall’esterno, dal buco della serratura, alle spalle, senza farvi parte e senza essere osservato, neppure percepito. Che gli importava a lui del mondo, che esistesse addirittura il mondo, che esistessero singoli esseri come E., C., V., D., K. e infiniti altri ancora. Che andassero in malora, fanculo a tutti, cazzi loro chi erano, cosa facevano e quello che pensavano. Il muro, forse, dovevano essere loro dell’ultima fila ad ergerlo, con l’entrata e tutto il resto, in maniera da far iniziare lì l’aula, promuovendo così l’ultima fila a prima fila. Girò lo sguardo verso M. e quello aprì i suoi occhi verdi, quasi avesse avvertito di essere osservato. Fece in tempo a indirizzargli un cenno di sorriso, di piena accettazione e complicità, appena prima che si richiudessero. Si soffermò un attimo anche su R., sempre immobile nella contemplazione del suo vuoto. Solo l’ultima fila era da salvare, non era parte del mondo. Si alzò per andare a pisciare. Per quelli dell’ultima fila non era necessario chiedere alcun permesso. Uscì dall’aula come fosse un fantasma.
