“In girum imus nocte et consumimur igni.”
Autore ignoto
(Nella foto, Gerardo Dottori, Incendio in città, 1926)
Io mi muovo lungo l’ombra dei muri, come i gatti. Dicono che tale comportamento sia sintomo di stati d’animo negativi, ombrosi, una palese deriva verso l’introversione e il disagio sociale, indice di vulnerabilità e bassa autostima, segnale inequivocabile di depressione e insicurezza. Per quanto riguarda la prima parte, fino al disagio sociale, posso anche essere d’accordo, sebbene non di disagio parlerei, quasi che il disadattato sia io, mentre la seccatura e il fastidio sono gli altri a suscitarli in me. La seconda parte, invece, mi trova totalmente in disaccordo, essendo io né vulnerabile, né depresso e insicuro, né pecchi in stima verso me stesso, è anzi la stima verso gli altri che non provo. Indifferenza, in genere, è quello che provo, fatto salvo i casi di palese disappunto e contrarietà. È raro che gli altri si interessino di me, con mia grande gioia e piena corrispondenza da parte mia.
Nelle rare eccezioni si collocano soprattutto i ragazzi, quelli nella fascia tra l’adolescenza e la prima giovinezza, quando non più di soli giochi fra loro si occupano e prima che s’interessino di donne e come fare soldi. Sono la categoria alla quale la diversità fisica e di comportamento più sorprende e meno aggrada, quella più perfida e crudele. Mi sbeffeggiano. Mi vedono diverso e dileggiano questa mia diversità, spudorati e spietati nella loro ignoranza e incomprensione. Mi danno del pazzo, folle e idiota, strano e ritardato, finocchio perfino. Esseri infami, replico, imperfetti e subumani, errori di ricombinazione genetica al momento del concepimento, frutto probabilmente di antecedenti difettose ricombinazioni, scarti di lavorazione, scorie virulente di materiali ribollenti, liquami maleodoranti, infimi ciarpami, rifiuti fetidi, nullità dell’esistenza. E ancora e ancora rivelo loro l’insignificanza del loro essere e del loro agire, affannandomi nell’infinita elencazione della loro inettitudine, fino a sgolarmi, a restare senza fiato, ad affannarmi e tossire per lo sforzo, pur consapevole dell’assoluta inutilità del mio agire, di star facendo il loro gioco. Infatti loro continuano indefessi, ricevono nuova linfa dalle mie parole, comprensibili o incomprensibili che a loro risultino, rincarano la dose, emettono improperi volgari, recitano frasi sconce e fanno cori malevoli, risate sarcastiche e gesti scurrili, inarrestabili nella loro fisicità primitiva e bellicosa. Sono io infine a cedere, esausto e stremato. Solo allora, dopo un finale scrosciante di invettive, gradualmente si acquietano, si distraggono e si allontanano, verso altri diversivi, altre avventure, altre oscenità e cattiverie. Resto solo, inerte. Rivado con la memoria al mio tempo da ragazzo, quando dicevano che avevo gli occhi da angelo, agli schiaffi e ai calci che avrei preso se solo lontanamente mi fossi comportato come questi esseri abominevoli di oggi, orgoglioso delle lezioni ricevute e delle azioni spregevoli mancate.
Odio i cani. Proprio come farebbero con i gatti, alla mia vista cominciano ad abbaiare furiosamente, avvertono l’odore della diversità e della mia paura. Percepiscono i feromoni dispersi nei miei umori, amplificati a dismisura dal terrore della preda che avverte la presenza del suo predatore. Impazziscono di piacere, individuano in me una vittima succulenta, stimolante e indifesa, si esaltano nell’ebrezza della prospettiva di serrarmi tra le loro zampe, attanagliarmi tra le loro zanne tossiche, smembrarmi e gustarsi il mio sangue. Piccoli o grandi non fanno alcuna differenza, uniti dalla stessa ferocia e determinazione. Anzi, i più piccoli sono addirittura più aggressivi, come se fossero consapevoli di quanto io rappresenti una preda facile anche per loro. Mi attaccano. Se sono legati ad un ceppo o tenuti al guinzaglio dai loro padroni si dannano l’anima nello sforzo di liberarsi dai loro vincoli e correre rapidamente ad azzannarmi. Tirano, strappano, tendono le corde e le catene, si lacerano il pelo e la pelle nel disperato tentativo di divincolarsi, sordi e insensibile alle eventuali grida di richiamo e alla resistenza a loro offerta. Io mi forzo a restare immobile, come una statua di ghiaccio o di sale, rigido ed esangue, sudando veleno mentre il cuore pulsa furiosamente e il cervello si annebbia, mentre le gambe vorrebbero invece divincolarsi e darsi alla corsa, le braccia mettersi a vorticare, le mani correre a sbarrare gli occhi. Se sono liberi, vagabondi addomesticati o allo stato brado, nulla li trattiene dal precipitarsi latrando verso di me, mi si portano di fronte e mi riversano addosso tutta la loro rabbia. Gli addomesticati senza padrone, forse perché selvaggi a metà, forse perché sufficientemente resi satolli dalla carità popolare, si limitano però a questo, non mi saltano addosso per azzannarmi, certamente non per timore di me o pietà verso di me, ma per atavica preoccupazione di assalire l’uomo che io rappresento, pur nella mia evidente pochezza. I selvaggi indomiti, perennemente affamati e bistrattati, non si fanno invece alcuna remora nell’avvinghiare le mie vesti, nell’addentare le mie gambe e le mie braccia, lanciarsi sul mio petto e verso il mio collo, portare il loro muso ringhiante e bavoso a pochi centimetri dalla mia faccia. E allora io finalmente reagisco, consapevole dell’inutilità della fuga, ringhio a mia volta, urlo la mia paura e la mia disperazione, scalcio e agito convulsamente le mie mani, cerco di difendermi con le unghie e con i denti, affannosamente cercando un’arma che possa moltiplicare le mie possibilità di difendermi, di resistere. Cerco pietre e bastoni, sedie e tavoli, rami e bottiglie rotte, roteo e colpisco, con quanta energia e nervi riesco a tirare fuori, aiutato più dalla volontà che dal fisico. Fortunatamente, finora sono riuscito a sopravvivere anche a questo. Nessuno mi difende, ovviamente, anche i padroni sghignazzano, pur nel loro sforzo di trattenere gli animali, motivato non certo da compassione verso di me ma dal desiderio di evitare alle loro bestie di imbrattarsi, avvelenarsi, agitarsi troppo e inutilmente. Se ci sono ragazzi nelle vicinanze, ne traggono ovviamente ulteriore motivo per il loro dileggio. Si schierano dalla parte dei cani. Attacca, attacca, dicono loro. Li incitano ad aggredirmi, li incoraggiano a fare più di quanto non facciano già da soli, tra risate sguaiate e urla, latrati e strepiti, sudori e bava. Paralizzato nel mio terrore o intento a difendermi rabbiosamente, grido loro il mio disprezzo. Esseri immondi e miserabili, urlo, merde maleodoranti, belve sudice, materia inerte e degenerata, figli di ladri e puttane, di assassini e malfattori. Urlo, come loro, quasi fossi anch’io un cane sguaiato. E continuo ancora ad inveire, all’infinito.
Potrebbe sembrare che io desideri starmene rintanato dentro casa, isolato dal mondo e dalle insolenze degli uomini e degli animali, invece io resto in casa il minimo indispensabile, la temo come una prigione. Devo respirare l’aria all’aperto, a pieni polmoni, dall’ombra dei muri e dagli stipiti delle porte, sia con la luce che con il buio. Dalla mia postazione solitaria mi godo poi da lontano la vista delle miserie umane, con indifferenza e distacco, come attraverso il vetrino di un microscopio. Nel mentre mi fumo con soddisfazione sigarette integre e cicche raccolte dalla strada, intabarrato nel mio logoro cappotto coi segni dei denti dei cani, col caldo e col freddo. Osservo le folli rincorse quotidiane, i passeggi e i capannelli, le feste e i funerali, i vecchi e i giovani, le donne imbellettate e gli uomini che si pavoneggiano, intenti alla conquista o eccitati dalla voglia di adulterio. Il massimo di coinvolgimento che mi concedo è un ghigno interiore. I momenti migliori sono quelli delle strade deserte, quando la piazza si svuota, nelle giornate uggiose e fredde, nelle ore tarde della notte, col silenzio rotto solo dai rumori naturali, dall’acqua che scorre, dalla pioggia, dagli uccelli notturni e da qualche stramaledetto cane che abbaia ai suoi demoni.
Il fuoco mi spaventa, come pare atterrisca le belve feroci. Ma la mia non è paura, è prudenza. Quella dei cani è paura, quella del fuoco è la consapevolezza brutale della sua forza. Me ne tengo alla larga, se posso. Mai acceso un fuoco, né stazionato intorno ad un falò sulla spiaggia o in montagna, né cotto carne alla brace e castagne arrosto. I fuochi d’artificio nelle feste d’estate, a parte l’unico vantaggio di far impazzire i cani, mi generano un turbamento generale, guardo le loro luci con tremore e occhi sbarrati, ascolto i loro rombi come fossero colpi d’artiglieria nemica. Sussulto ad ogni scoppio, ad ogni tracciante che si proietta verso il cielo, ad ogni cascata di luci multicolori che si genera. Avverto i segni premonitori dell’apocalisse che verrà, quando la terra sarà purificata con il fuoco. Non che mi spaventi il giudizio di Dio, pur avendo le mie colpe e i miei abissi il suo verdetto non potrà che essere di gran lunga più clemente verso di me che verso il resto dell’umanità, verso i cani e i ragazzi. Ma preferirei di gran lunga un’apocalisse di terra e di acqua, di aria addirittura, con vortici inarrestabili di fango acquitrinoso a devastare tutto e tutti, sollevare, spazzare, sciogliere e disintegrare. Guardo con circospezione e preoccupazione i residui cartacei bruciacchiati degli ordigni esplosi nel cielo mentre ricadono fluttuanti a pochi passi da me, cerco di allontanarli con gesti e sibili, con maledizioni e antichi esorcismi. Ho avuto anche la sventura di assistere ad un incendio notturno, per fortuna da lontano. Il cielo era rosso per i riflessi delle fiamme, pulsante come un corpo amorfo che soffre di spasmi interiori, mentre il crepitio della materia agguantata e fusa riempiva l’aria, insieme agli odori dei gas generati dalle trasformazioni chimiche in atto. Le sirene dei pompieri mi rimbombavano nelle orecchie. La folla dei curiosi, le grida, le corse dei ragazzi, l’ululato dei cani, tutto si confondeva nei mie sensi e nel mio cervello, consapevole del monito dell’antico palindromo in girum imus nocte et consumimur igni, andiamo in giro di notte e siamo consumati dal fuoco.
Poveretto, dicono parlando di me. Li sento sussurrare se sono a distanza di orecchio, leggo le loro labbra se sono oltre le mie capacità uditive. Mi additano da lontano con falsa commiserazione. Non ho mai la ventura di percepire uno sguardo umano, non ostile ma neanche compassionevole, uno sguardo magari riverente. Io sarei il poveretto, bisognevole di commiserazione? Rintanatevi nelle vostre miserie e nella vostra ignoranza, proclamo nella mia mente, non ritenendoli degni neanche di sprecare fiato e parole. Marcite nelle vostre caverne, ad osservare le ombre sfumate di una realtà alla quale non siete degni di accedere, di percepire e comprendere. Siete voi ad essere poveretti, reietti e miserabili. Vi snobbo, come i gatti dall’ombra dei muri. Io volo alto, ben al di sopra delle vostre teste e delle vostre possibilità, vi osservo con sguardo d’aquila, mentre guizzate come immondi girini nelle melme delle vostre esistenze effimere. Io vi schifo e vi derido, fantasmi fluttuanti nel nulla. Mostro loro la lingua in segno di disprezzo.
