Notizie dal nord

“Scoraggiato, incerto sul da farsi, pensò che forse i morti più che i vivi potevano essere maggiormente loquaci.”

(Nella foto, Vassily Polenov, Cimitero tra i cipressi, 1897)

A detta di tutti coloro che lo conoscevano, Sebastiano Pavan era un bravo giovane. Se una colpa poteva ufficialmente essergli addebitata, a voler essere proprio pignoli, era quella di essere di origine veneta, in una terra dove il Veneto era a malapena noto come regione del lontano nord e la cui collocazione esatta era ai più incerta. Neppure lui, del resto, ne conosceva più di tanto, non essendoci mai stato né avendo ricevuto informazioni di dettaglio dal suo prematuramente defunto padre, al quale doveva il cognome e poco altro. Gilberto Pavan, il padre, era arrivato in paese con la corriera di mezzogiorno, un giorno assolato di metà agosto, orario e periodo in cui nessuno si sarebbe mai sognato di muoversi dall’ombra delle case, figuriamoci di andare in giro in corriera. Unico passeggero, appena sceso, con uno zaino tenuto su una spalla e nessun altro bagaglio, si era guardato intorno, poi si era diretto verso l’osteria della piazza e aveva chiesto un bicchiere di vino bianco, sotto gli occhi indagatori dei presenti. Erano tutti uomini, in attesa che finisse la messa per riunirsi a mogli, madri, nonne, figlie e fidanzate, per poi fare due chiacchiere tra parenti e conoscenti nel lato in ombra della piazza, prima di tornare a casa per pranzo, già preparato e pronto dalla mattina presto, salvo le ultime incombenze da mettere a punto sul momento. Quando il locale si era svuotato, era uscito anche lui, fermandosi vicino all’entrata, ammaliato dallo spettacolo del ricongiungimento. Tra le molte donne presenti, diverse lo avevano guardato di sottecchi, unica presenza forestiera nei paraggi, per di più giovane e prestante. Solo Margherita Sciacchitano lo aveva guardato fisso e diretta, attirando la sua attenzione, complici anche la bellezza dei di lei occhi scurissimi e una certa avvenenza, sebbene mascherata dalla altezza modesta e dagli abiti casti. Ciò era bastato, avvalorando la tesi dell’esistenza dei colpi di fulmine tra innamorati. Una settimana dopo il suo arrivo, Gilberto Pavan aveva già lasciato la camera in affitto dove si era provvisoriamente stabilito, affittato una casetta di due stanze e trovato lavoro come tuttofare presso il locale consorzio agrario. Si era quindi presentato a casa di Gerardo Sciacchitano, contadino e allevatore, per chiedere il permesso di poter frequentare sua figlia Margherita a scopo matrimonio, qualora lei fosse parimenti interessata, naturalmente. L’interrogatorio al quale era stato sottoposto era stato lungo e dettagliato, sviluppato intorno a dati genitoriali, data e luogo di nascita, scolarità, adolescenza, maturità, credo religioso, servizio militare, rapporti con la legge, esperienze lavorative e sentimentali, obiettivi a medio e lungo periodo, per poi culminare sui motivi della migrazione da nord a sud. Qui le risposte, da puntuali e circostanziate che erano partite, si erano fatte più vaghe, in un misto di incomprensioni familiari e desiderio di avventura. L’esame era stato comunque superato, il permesso accordato e l’interesse della ragazza confermato. Dal fidanzamento ufficiale al matrimonio era passato poco meno di un anno, tempo analogo era trascorso prima della nascita di Sebastiano, ma era occorso ancora un anno e mezzo prima che Gilberto Pavan fosse trovato senza vita poco distante dal consorzio dove lavorava, causa molteplici ferite da arma da taglio, probabilmente inferte da due persone diverse dotate di lame differenti per forma e dimensione. Le indagini erano state rapide e scoraggianti, non essendoci testimoni, tracce particolari e neppure le armi utilizzate. Tuttavia, la generale benevolenza della quale godeva la vittima, uomo di pace e rispettoso, insieme all’assenza di qualsiasi palese movente che potesse indirizzarsi verso Gerardo Sciacchitano e i suoi congiunti più o meno diretti, avevano portato a pensare che le ragioni dell’accaduto potessero avere radici nella vita di Gilberto Pavan antecedente all’arrivo in paese, piuttosto che nella sua più recente esistenza.

Vissuto a casa dei nonni, senza che la madre avesse mai desiderato risposarsi, Sebastiano Pavan era cresciuto dritto e retto, come un qualsiasi altro ragazzo del sud, tranne che per il cognome. Al raggiungimento della maggiore età, Margherita Sciacchitano ritenne fosse il momento di ufficializzargli che non di morte incidentale si era trattata per quella del padre, come gli era stato raccontato fino ad allora, ma di morte violenta a causa di persone rimaste ignote, forse per motivi legati alle sue origini nordiche. Fu una rivelazione, questa, che turbò profondamente il giovane, tanto che non più di un mese dopo espresse alla madre e al nonno la volontà di recarsi al nord, nel paese veneto di nascita del padre, per cercare di rintracciare le ragioni e magari le persone alle quali il delitto andasse ricondotto. A nulla valsero i tentativi di distoglierlo, sia sulla base del tempo ormai intercorso, sia per la difficoltà della cosa. Sebastiano Pavan partì per il nord, con qualche indumento di riserva, denaro bastevole al massimo per un paio di settimane, la benedizione di Gerardo Sciacchitano e le raccomandazioni infinite di Margherita Sciacchitano. Furono necessari tre giorni per arrivare alla stazione ferroviaria più vicina a destinazione. L’ultimo tratto fu fatto a piedi, per risparmiare e per non dare nell’occhio. Il panorama era bello, una valle che declinava da una zona collinare, per poi perdersi verso la pianura, attraversata da un torrente più che un fiume vero e proprio. Il paese più che un paese era un insieme di contrade, interconnesse da stradine tra campi e casali. Chiese in giro dove poteva trovare lavoro e da dormire. L’origine dal lontano sud era evidente, qualche difficoltà di intendersi risultava palese, ma la giovane età e la faccia da bravo ragazzo indussero a benevolenza, complice anche la motivazione dichiarata di essere un orfano girovago. Alla fine fu indirizzato al locale mulino a ruota, appena sotto la collina, subito dopo un salto del torrente che dava alla corrente velocità e potenza, dove due braccia in più facevano sempre comodo. Durante il viaggio aveva vagliato vari nomi e cognomi coi quali presentarsi, scartando non solo Pavan, ovviamente, ma anche Sciacchitano e Sebastiano, per sicurezza. Alla fine aveva scelto di apparire come Santino Bonocore. Dopo un paio di mesi passato a lavorare, girovagare e vivere per i fatti suoi, evitando atteggiamenti sospetti e di fare domande indiscrete, si sentì sufficientemente accettato da poter iniziare qualche indagine e fare qualche domanda. Scoprì che di Pavan ce n’erano molti in paese, più o meno dispersi tra le contrade, ma questo era comune a diversi altri cognomi locali, un po’ come succedeva lì da lui al sud, indice di antiche e comuni origini per molti degli abitanti attuali. Scoprì anche che, sebbene le persone fossero più ciarliere ed estroverse che al sud, sotto sotto, al di là della patina superficiale, non erano meno restie a parlare dei fatti propri, mentre di quelli degli altri parlavano sì, ma solo per fatti irrilevanti e già di ampia conoscenza. Di cose segrete, intime, pesanti, proprie o altrui, nessuno era ben disposto a parlare, per atavica abitudine più che per atavico timore. Scoraggiato, incerto sul da farsi, pensò che forse i morti più che i vivi potevano essere maggiormente loquaci. Decise di farsi un giro al cimitero, alla ricerca di qualche indizio. Anche lì, tra molte tombe interrate e pochissimi loculi, le ricorrenze tra i cognomi ricalcavano quelle tra i vivi. Notò addirittura più di un’omonimia completa, di cognome e nome. Gli venne la curiosità di cercare se tra le tombe dei Pavan ce ne fosse qualcuna col nome Gilberto. Ne trovò quattro, in punti diversi del cimitero, ma non era escluso ce ne fossero altre. Alla quarta si fermò, sorpreso. Il primo era un vecchio loculo in pietra, abbastanza malridotto, di datazione ormai illeggibile e dal nome distinguibile a fatica. La seconda e terza tomba appartenevano una ad un bambino morto all’età di nove anni, l’altra ad un uomo nato circa sessant’anni prima e morto più o meno a cinquant’anni. La quarta tomba riportava due date che lui conosceva molto bene, quelle della nascita e della morte di suo padre. Se non fosse stato per la sua conoscenza diretta della tomba, giù al paese del sud, meta periodica delle visite di sua madre e sua, avrebbe indubbiamente identificato questa che vedeva come la tomba dove era sepolto il Gilberto Pavan che gli aveva dato i natali. Uniche differenze, l’essere di forma e materiale diverso, quella di ferro e questa di nuda pietra, l’essere quella ben tenuta e sempre coi fiori freschi, questa abbandonata e ricoperta di erbacce. Una coincidenza di nome e date così puntuale era sbalorditiva. Vide da lontano un vecchio che si aggirava tra le tombe, con una carriola, raccogliendo erbacce, fiori secchi e qualche pietra. Era meglio evitare domande precise, ma non sapeva esattamente cosa chiedere. Gli si avvicinò e esordì con una saluto, facendo poi una affermazione generica su come i cimiteri siano uguali da tutte le parti, solo morti e silenzio. “Già.”, fu l’unico commento che ricevette, scoraggiante. Ritentò, banalmente, con la domanda più retorica che poteva formulare “Siete il custode?” “Già.”, fu ancora l’unica risposta del vecchio. Decise il tutto per tutto. “Pare incredibile,” disse, “ma guardando in giro ho trovato nomi di persone e date comuni a quelle di altri cimiteri che mi è capitato di visitare.” Sempre senza smettere di fare le sue cose, il vecchio questa volta fece quello che poteva essere interpretato quasi come un lungo discorso, alla luce dei monosillabi precedenti. “Quello il morto uno è,” osservò, “o sta da una parte o dall’altra.” Riprese poi la sua carriola e senza aggiungere altro continuò il suo girovagare.

Difficile credere più di tanto alle coincidenze, insomma, questa era la conclusione alla quale la ragione e le parole del custode portavano. Che il morto, suo padre, fosse giù al suo paese era cosa certa, quindi la fossa al cimitero al nord doveva necessariamente essere vuota, oppure al massimo ospitare un morto dal nome non corrispondente a quello scritto sulla croce. Un passetto avanti era stato fatto, sebbene a tentoni e non fosse chiaro in che direzione procedere ulteriormente. Dove c’è maggiore competenza sui morti, oltre al cimitero, se non in chiesa? Santino Bonocore prese a farsi vedere la domenica a messa nella chiesa del paese, ambiente al quale non era più abituato da quando aveva una decina d’anni. Questo perché lì nel suo paese, al sud, i ragazzi andavano in chiesa con i genitori fino al massimo a quell’età, per curiosità o per costrizione genitoriale, per poi allontanarsene ed evirarla nell’adolescenza, presi da interessi più mascolini. Era solo da giovani fatti che ci si riavvicinava ai suoi pressi, addirittura si entrava per le funzioni, quando nasceva l’interesse per le ragazze, che solo là potevano essere guardate, più o meno furtivamente, sperando di essere addirittura da loro notati. La chiesa di qua, al nord, era molto diversa da quella del suo paese. Quella era più piccola, raccolta, sempre in penombra, come a invitare alla preghiera o alla cautela dei gesti e dei comportamenti, a scanso di equivoci. Questa era invece ampia e alta, con vetrate e piena di luce, quasi invitante alla distrazione e all’esibizione di movenze e atteggiamenti, tutto alla luce del sole. Solo il prete sembrava fuori posto, di mezza età, taciturno e introverso, con un ghigno stampato sul viso, come di chi avesse deciso di far pagare agli altri la sventura di aver dovuto intraprendere la professione che portava avanti. Il sacrestano, anziano, pareva invece perfettamente a suo agio, come a casa sua, felice di prestare la sua opera, di osservare chi pregava e chi era impaziente di uscire, i buoni e i cattivi nei loro comportamenti dentro la chiesa rispetto ai comportamenti fuori la chiesa. Col prete non ci provò proprio, era solo perdita di tempo. Prestò però sempre maggiori attenzioni al sacrestano, salutandolo, facendo le sue offerte nei momenti durante la messa in cui quello passava col sacchetto in mano, scambiando con lui qualche parola alla fine della messa. Scoprì che era vedovo, senza figli, nato e vissuto sempre in paese. Gli regalò anche della farina, in un paio di occasioni, di quella che al mulino potevano prendere liberamente, ogni tanto e in quantità moderata. Quando gli parve che la confidenza con lui fosse ben avviata, una domenica trovò modo di prendere alla larga l’argomento che gli stava a cuore. “Voi che trattate con i vivi e con i morti,” gli disse, “sapreste spiegarmi una cosa che mi ha incuriosito al cimitero?” “Se posso essere di aiuto,” rispose quello, “io qua sono.” “Mi trovavo per caso vicino ad una tomba molto malridotta,” raccontò, “mi era venuto spontaneo strappare delle erbacce e spostare delle pietre, ma il custode, che era lì vicino, mi disse che era inutile, perché là il morto non c’era. Non aggiunse altro e si allontanò, preso dalle sue faccende. Com’è possibile che ci siano delle tombe senza morto?” Il sacrestano parve divertito, come di fronte ad un bambino che chiedesse lumi su una cosa semplicissima e ovvia. “Non è raro che succeda, almeno succedeva fino a non molto tempo fa, prima che arrivasse l’attuale prete, che è più intransigente.”, spiegò. “Quando qui in paese arrivava la notizia della morte di un compaesano non più residente, partito in genere per cercare fortuna all’estero o in altre parti d’Italia, i familiari rimasti usavano a volte celebrare non solo una messa in suffragio della sua anima, ma una vera e propria cerimonia funebre, con tanto di bara vuota e relativa tomba al cimitero. Qual era la tomba in questione?” La risposta fu volutamente evasiva, “Mi pare ci fosse scritto Pavan, qualcosa del genere. Il nome non lo ricordo. Risaliva a meno di vent’anni fa.” Il sacrestano fu rapido nelle sue reminiscenze, “Allora si tratta della tomba di Gilberto Pavan. Sicuramente. Sempre la stessa storia per la tomba. Quando ai suoi genitori arrivò la notizia della sua morte, ne celebrarono il funerale completo. Era il loro unico figlio. Sono morti anche loro, a poca distanza l’uno dall’altro, qualche anno dopo.” Tutto normale, quindi, di più quello non sembrava sapesse, né Santino Bonocore ritenne opportuno insistere ancora sull’argomento e passò ad altro. Ancora un passetto in avanti, che era necessario digerire meglio.

Suo padre era quindi andato via dal paese per cercare fortuna altrove, a detta del sacrestano. Ma qui proprio stava la stonatura. Anche nel suo paese, lì al sud, ogni tanto qualcuno partiva per cercare lavoro altrove o addirittura per cambiare definitivamente vita, il suo futuro. Le destinazioni erano quasi sempre l’America, quella del nord e quella del sud, dal Canada all’Argentina, passando per Stati Uniti e Venezuela, oppure il Belgio, la Germania e la Svizzera. Nomi mitici, sentiti citare come di destinazioni lontane e misteriose, quasi esotici per lui, che non si era mai allontanato dal suo paese fino a questa sua avventura in corso. Anche il nord dell’Italia veniva qualche volta scelta come meta. Ma quando mai gli avevano raccontato di gente venuta a cercare fortuna lì al sud, dall’estero o dal nord? Quando mai aveva lui visto qualcuno del nord prima di allora? E quale fortuna poteva poi essere trovata dalle sue parti, dove a malapena si tirava a campare? Se qualcosa aveva portato suo padre a spostarsi verso il lontano sud, non certo di ricerca di maggior fortuna si era trattato. Sua madre gli aveva ovviamente raccontato che le motivazioni addotte erano state un insieme di problemi in famiglia e voglia di novità. Ora anche queste cause gli sembravano deboli. Quali novità avrebbe potuto trovare al sud che non avrebbe potuto trovare al nord, moglie compresa? Problemi in famiglia, con genitori che avevano addirittura celebrato la sua morte con un funerale di tutto punto? Più ci rifletteva sopra e più si convinceva che la risposta non poteva che essere una sola: era scappato, il più lontano possibile di quanto era nelle sue possibilità. Per paura forse. Ma paura di chi? E per quale motivo? C’era poi un altro mistero, evidentemente. Come era arrivata fin quassù ai suoi nonni la notizia della morte del loro unico figlio? Chi poteva esserne al corrente e prendersi la briga di farne avere notizia? Non c’era che una spiegazione: chi aveva commesso l’omicidio doveva essere il latore della informativa, uno di qui, del nord, per far capire che la faccenda era stata chiusa. Era quindi confermata la sua missione originaria che l’aveva portato fin lassù, trovare chi, in paese, poteva avere motivi di rancore e vendetta verso suo padre. Tutti in paese sembravano conoscersi, tutti sembravano amici e sembrava anche che non succedesse mai niente di importante. Da quando era arrivato aveva saputo di un funerale e di un matrimonio, aveva anche assistito alla festa del santo patrono. Ma mai che gli fosse arrivata notizia di una ruberia, una lite in pubblico, un morto ammazzato, in paese e nei dintorni. Tutti buoni e santi, sembravano essere. Aveva provato a parlarne con uno che lavorava con lui, uomo fatto e padre di tre figli maschi e di una femmina. “Giù al mio paese ogni tanto qualche zuffa ci scappa,” aveva detto, “capita qualche furto di bestie o di legname, si scopre un morto ammazzato in qualche dirupo, ci sono quelli che comandano e quelli che obbediscono. Qui mi sembra tutto diverso.” “È che voi al sud siete più focosi,” aveva risposto quello, ridendo, “sarà per il caldo eccessivo.” “Scherzo,” aveva aggiunto, “anche qui di cose ne succedono, magari più raramente, ma ne succedono, e non siamo certamente tutti angioletti. Le rivalità ci sono e le inimicizie anche. Forse siamo più bravi a nasconderle, ad essere falsi. Ed anche da noi ci sono quelli che comandano, i ricchi.” Anche lui vago, però, senza nomi e cognomi, né fatti. Decise di ritornare ancora dai morti, riprovare ancora col custode del cimitero. In giro tra le tombe non si vedeva. Arrivato in fondo, dall’altra estremità dell’ingresso principale, vide che c’era un passaggio tra il basso muretto di cinta a pietre nude che circondava il cimitero, quasi nascosto tra il tronchi dei numerosi cipressi. Si inoltrò e vide il custode, sempre con la carriola e i suoi attrezzi, al lavoro presso alcune tombe, in uno spiazzo all’esterno del muretto. Gli si avvicinò e lo salutò. Ricevette in cambio un cenno con la testa. “Anche qui ci sono tombe, fuori dal cimitero?” La risposta non lo sorprese, “Già.” Spinto dalla curiosità, ne chiese la ragione. “Dentro ci sono quelli che non volevano morire,” disse quello, quasi con uno sforzo, “qui si sono quelli che hanno cercato la morte.” Chi si era suicidato, quindi, messo all’indice anche da morto. Erano tre tombe, due uomini e una donna. Quelle degli uomini risalivano a trenta e quarant’anni prima. Quella della donna, Teresa Mantovani diceva la scritta, era più recente, la data della morte era di una ventina d’anni antecedente. Notò che l’anno e il mese coincidevano con l’arrivo di suo padre lì al sud, nel suo paese, circa quindici giorni prima. Inutile rincorrere il custode, che era sparito di nuovo dentro al cimitero, per cercare di sapere di più su questa ragazza, che tale era stata al momento della morte, quasi diciannovenne.

Nei giorni seguenti, Santino Bonocore non riusciva a non pensare alla defunta Teresa Mantovani. Poteva esserci un collegamento tra lei e suo padre? Addirittura, per quanto incredibile potesse essere la cosa, poteva la sua morte essere messa in relazione con la fuga di suo padre verso il sud, esserne perfino la causa? Il sacrestano era l’unico al quale potesse ricorrere. “Poveretta, Teresa.” disse quello. “Fu un fatto terribile che colpì tutto il paese. Si tagliò le vene. La trovarono i due fratelli più grandi. Il prete di allora avrebbe voluto anche celebrare il funerale in chiesa e seppellirla nel cimitero, ma aveva le mani legate, la Chiesa non lo permette. La misero nella tomba appena fuori dal cimitero, il prete non poté neanche benedirla, fu detta solo una preghiera per il morti.” Santino Bonocore fece poi la domanda cruciale “Perché si uccise, così giovane?” “Mali d’amore, si disse, ma rimase un mistero.” Di mali d’amore lui ne sapeva poco, e quel poco contemplava quello che il parlare comune diceva al suo paese del sud, tra la sua gente, i suoi amici e la sua famiglia. Una ragazza soffre mali d’amore se non è ricambiata, soprattutto, oppure se è disonorata. In entrambi i casi, la poveretta può non essere in grado di reagire, questo sia al sud che al nord di ogni parte del mondo, e arrivare a darsi la morte. Poteva essere stato suo padre la causa di quel mal d’amore? Poteva essere. Allora la conclusione non poteva che essere una, i due fratelli della ragazza l’avevano ritenuto responsabile, a torto o ragione, tanto da costringerlo a scappare, per poi rintracciarlo e compiere la loro vendetta. Poteva essere. Discretamente, tra una mezza chiacchiera e l’altra, tra un girovagare e l’altro per le contrade del paese, tra una indicazione e l’altra, arrivò a guardare da lontano i due fratelli Mantovani. Sarà stato perché uno vede in fondo quello che vuole vedere, saranno stato le loro facce, sarà stata una fitta al cuore che provò, forse il segnale del defunto genitore, fatto sta che Santino Bonocore fu certo delle conclusioni alle quali era giunto. Tre settimane dopo, nella semioscurità di un vicolo, attese Agostino Mantovani detto Gustìn di ritorno a casa dopo un passaggio in osteria. La prima coltellata la diede al fianco sinistro, volutamente non mortale, col coltello che si era portato dal sud tra le altre cose, dicendogli che era da parte di Gilberto Pavan. Quelle realizzò di che si trattava. “Fottiti tu e lui.” Disse. “Quel bastardo non ne volle sapere di Teresa, che era innamorata persa e si uccise. Si meritava la sua fine.” La seconda coltellata fu diretta precisa al cuore. Passato il clamore dell’accaduto, dopo indagini che non portarono a niente, Domenico Mantovani detto Ménego fu trovato in un fosso di campagna con la gola tagliata. Grande fu la commozione del paese intero, per la sorte toccata ai due fratelli, a poca distanza l’uno dall’altro. Ancora una volta le indagini furono inutili, del colpevole nessuna traccia, né c’era idea alcuna sul movente di tali uccisioni. Santino Bonocore restò a lavorare ancora sei mesi in paese, per non indurre sospetti, tra qualche chiacchiera in osteria, sul più e sul meno, qualche messa e due parole col sacrestano, qualche visita al cimitero e un cenno di saluto al custode. Portò anche dei fiori sulla tomba di Teresa Mantovani, vittima innocente. Quando scese dalla corriera, nella piazza del suo paese lì al sud, Sebastiano Pavan respirò a pieni polmoni, felice di essere tornato a casa, poi si diresse verso il cimitero, senza fretta, a portare notizie dal nord.

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