“Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da agenti
della divina follia.”Alda Merini
(Nella foto, Pazzo che guarda tra le proprie dita, anonimo del 1537)
Vieni. Vieni con me. Lei lo dice con una voce dolce e suadente, armoniosa, da sirena ammaliante. È attraente, pur non essendo vistosa. Una bellezza acqua e sapone. Si trova a qualche metro da me. Mi guardo intorno, alla ricerca del fortunato al quale tanta bellezza è indirizzata, al quale l’invito è rivolto. Non vedo nessuno. Sono solo. Forse ho inteso male le parole dette, anzi sicuramente. Saranno parole assonanti, omofone. Vieni. Vieni con me, lei ripete. No, avevo inteso correttamente allora. Sembra proprio un invito ad avvicinarmi. Ma quelle parole non possono essere rivolte a me. Assolutamente no. Non è mai successo, neanche da parte di donne di gran lunga meno belle di lei. Non sono il tipo d’uomo da suscitare tanto entusiasmo in una donna, per di più bella, anzi bellissima. Sicuramente non lo sono stato a vent’anni, né per il fisico, né per le fattezze, né per tutto il resto, men che meno posso esserlo adesso, che di anni ne ho il doppio. Cerco di pensare, prudentemente, per quel poco che la mia mente mi consente di fare. Ragioniamo, mi dico, calma. I casi non possono essere che due, lei è solo un miraggio, il frutto di un’illusione ottica o della mia fantasia, oppure lei è reale, ma le sue parole nascondono una trappola, un’insidia, proprio come il canto di una sirena. Come sciogliere il dubbio? Provo a darmi un pizzicotto, ha sempre una sua utilità. Sento dolore, non sto sognando. Deve esserci un inghippo allora, un tranello, forse uno scherzo. Magari appena accenno ad andarle vicino, faccio il figo, il conquistatore, escono dai loro nascondigli gli ideatori dello scherzo e tutti insieme, lei compresa, mi prendono per i fondelli. C’è cascato il coglione, ha creduto davvero di aver conquistato una tipa come lei. Vieni. Vieni con me. Dice ancora, ammiccante. Muovo qualche passo incerto verso di lei, timidamente, catturato da tanta bellezza e seduzione. Mi sembra che tenda addirittura le mani verso di me. La raggiungo e l’abbraccio, le sfioro le labbra con un bacio leggero. Sento un urlo raccapricciante, ricevo una spinta che mi fa vacillare. Resto interdetto. Oddio, balbetto, ma cosa? Ma come? Che succede? Altre urla da parte sua, alle quasi si uniscono grida tutto intorno a me, avverto decine di occhi che mi fissano, gente che si avvicina, mani che si protendono verso di me, aggressive e potenti. Realizzo che vogliono afferrarmi e malmenarmi, anche se non comprendo la ragione di quello che sta succedendo, non capisco il motivo della sua reazione scomposta, del suo voltafaccia, il perché di quella coalizione bellicosa contro di me. Intuisco solo che devo salvarmi, sottrarmi alla furia incombente, scappare. Trovo la forza di catapultarmi come un ariete verso uno dei settori del circolo di persone che sta collassando sopra di me, mi apro un varco e comincio a correre affannosamente, con quanta energia e celerità mi consentono il mio corpo inadeguato e la mia postura sgraziata. Sento gridare alle mie spalle, percepisco la rabbia dei cani che vedono sfuggire l’osso dalle loro mascelle, distinguo i passi di quelli che mi inseguono, furiosi e vendicativi. Raccolgo con disperazione le mie estreme riserve di vigore e conferisco ulteriore impulso alle mie gambe, spingo, urto e allontano ogni cosa che mi si pari davanti, scarto e dribblo tutto e tutti, mi inoltro nei vicoli e tra i rifiuti, calpesto ghiaia e fango, terra e sterpaglia. Progressivamente il gruppo dei miei inseguitori si sfilaccia, si riduce fino a estinguersi, mentre vedo solo campagna e alberi intorno a me. Rallento, annaspo, rantolo e mi butto finalmente tra l’erba di una radura, stremato e senza fiato, coi polmoni e il cuore che scoppiano, le tempie che pulsano e il cervello vuoto. Resto così a lungo, rotto, sporco e indifeso. Lentamente riprendo fiato, il cuore si calma, la mente riprende coscienza. Sono salvo.
Infine mi rialzo, mi ripulisco alla meglio e mi incammino nuovamente verso le case, verso la gente, verso casa mia. La mia schiena con gli anni è andata sempre più incurvandosi e la mia andatura risente delle conseguenze dei miei piedi a papera. In generale, mi rivedo nell’incedere alla Charlie Chaplin, salvo che lui è ritto come un palo, mentre io dritto non sono mai stato, ora più che mai. La cosa potrebbe anche farmi piacere, per il parallelo più che nobile, ma è stata per me sempre fonte di imbarazzo, irrisione e canzonature, dall’infanzia all’età adulta. A casa mi butto sul letto così come sono, vestito e con le scarpe. Chiudo gli occhi e cerco di visualizzare il ronzio della mia mente, fatto di tanti cerchi schiacciati concentrici, ellissi mi pare si chiamino, come le corsie di una pista di atletica, solo che quelle sono ferme, mentre queste nella mia testa sono in movimento. Un movimento che però ha sempre l’effetto di rilassarmi, svuotare la mente dai pensieri, brutti o belli che siano. Mi godo il vuoto e l’apatia, entro in un’altra dimensione, sono in un altro luogo, un altro tempo e un altro corpo. Mi riscuoto e torno al mio presente. Vado al bagno, tra la mia stanza e la stanza matrimoniale, vuota da diciassette anni, cinque mesi e tre giorni, per adempiere a imbellenti bisogni corporali. Mi lavo accuratamente mani e viso. Lo specchio riflette la mia faccia smunta. Sistemo i capelli. Mi piace la riga centrale, con la fronte libera. Applico una dose di brillantante, per ravvivare la tenuta delle ciocche. Passo in cucina per prendere le mie due pillole di metà giornata. Sono sei in tutto le pillole al giorno che mi sono state prescritte qualche anno fa, due la mattina, due intorno all’ora di pranzo e due prima di andare a letto. Prima prendevo delle gocce, per anni, trenta ogni quattro ore, ma prima ancora avevo altre pillole, di forma e colore diverse da quelle attuali, non ricordo nemmeno più ogni quanto tempo. A mia memoria, ho sempre preso medicine, sotto forma di pillole, gocce, sciroppi e anche iniezioni, ormai ci ho fatto il callo, ingoio qualsiasi cosa mi venga data. Prendo anche un paio di biscotti, da mangiare per strada. Nell’ingresso il calendario appeso dietro la porta mi conferma l’appuntamento e l’orario. Sono in perfetta tabella di marcia, una mezzora appena di camminata lenta. Trovo la sala d’aspetto vuota e vengo quasi subito introdotto nello studio. Io e il dottore ci guardiamo, chino appena la testa, poi mi distendo sul lettino. Lui accosta la sua poltrona e consulta un libretto di appunti. Due settimane fa mi raccontavi di aver sognato tuo fratello, mi dice. Mio fratello, certo, l’avevo sognato proprio la notte prima, replico, però io volevo palarle di quello che mi è successo oggi, stamattina. Capisco, ma voglio prima concludere il discorso su tuo fratello, insiste, mi dicevi che stavate facendo un puzzle insieme. Lo assecondo, ubbidiente. Proprio così, dico, un puzzle gigantesco, copriva quasi tutto il pavimento della nostra stanza. I pezzi erano di dimensioni molto ridotte, la difficoltà era elevata e per quanto impegno ci mettessimo non si vedeva la fine dell’opera. Rappresentava una panoramica dell’acropoli di Atene, così c’era scritto sulla scatola. Ci stavamo divertendo molto, ridevamo a crepapelle quando cercavamo di incastrare un pezzo in una posizione, ma non c’era modo di inserirlo. Ero felice. Capisco, dice lui, avresti desiderato giocare con tuo fratello. Molto, confermo, non abbiamo mai potuto giocare insieme io e mio fratello gemello, non si può giocare col proprio fratello se è morto il giorno stesso della vostra nascita. Lui annota qualcosa sul suo libretto, poi se ne sta in silenzio. Interpreto il suo silenzio come un invito a poter parlare di quello che mi è successo stamattina. Lo racconto con dovizia di particolari, di quanto lei fosse bella e attraente, della mia perplessità iniziale di fronte al suo invito, del suo insistere, del mio delicato abbraccio, del bacio leggero che ho sentito il bisogno di dare alle sue labbra, della sua reazione, dell’urlo, della folla che voleva saltarmi addosso, malmenarmi, linciarmi forse, della mia fuga affannosa. Alla fine del resoconto avverto di nuovo l’angoscia, la paura e l’affanno della corsa, lo sgomento e la vergogna, le gocce di sudore che si formano sulla mia fronte. Lui si alza, versa in un bicchiere dell’acqua da una brocca poggiata sulla scrivania e mi porta da bere, per poi sedersi nuovamente. Bevo avidamente, per poi poggiare il bicchiere a terra, accanto al lettino. Lui annuisce più volte, poi scrive ancora delle annotazioni. Avrà capito tutto, penso. È un dottore bravo, è già qualche anno che mi segue, ascolta molto e scrive tanto. È lui che mi ha fatto passare dalle gocce alle sei pillole. Continua ad annuire, ma non parla. Ricordo un dottore che avevo diversi anni fa, ne ho avuti tanti, che mi invitava sempre a parlare, a condividere i miei pensieri e i miei sogni, le mie paure e gli eventi quotidiani della mia vita, però quando cominciavo a parlare, a focalizzare quello che avevo da dire, ecco che partiva lui con le sue digressioni, le sue analisi e diventava inarrestabile fino alla fine della seduta. Questo parla raramente e poco, pensa e scrive molto. Naturalmente, dichiara infine, questa non è altro che una ulteriore manifestazione della tua eterna carenza di affetto nelle relazioni primarie, essenzialmente da parte delle tue figure di riferimento parentali e familiari in genere. Per compensare questa ferita, il tuo io fragile sviluppa l’illusione del richiamo da parte di qualcuno, in questo caso una donna attraente, ma la bellezza è un dettaglio secondario, anche essa può essere solo un tuo vagheggiamento, verso cui ti indirizzi pieno di aspettative. E poi l’ineluttabile delusione ti fa inevitabilmente soffrire. Respira quasi affannosamente, come se avesse parlato troppo per la sua capacità polmonare. Diventa ancora silenzioso. Annuisce ripetutamente. Medito sulle sue parole, la sua implacabile diagnosi, emessa già altre volte, comune a quelle formulate dagli altri dottori prima di lui. Mi chiedo se hanno davvero ragione tutti loro, tutti questi dottoroni che hanno evidentemente studiato tanto, ascoltato tante persone e tanti racconti. Può essere, non saprei giudicarlo con certezza, non posso essere certo io, oggetto dell’osservazione a giudicare il soggetto che osserva. Quello che però mi fa pensare è l’affermazione che la delusione debba essere ineluttabile e la mia sofferenza inevitabile. Non potrebbe per una volta nella mia esistenza, una volta sola su una molteplicità di eventi simili, l’illusione creata evitare di deludermi, essere generosa, magnanima o anche solo caritatevole? E non potrei qualche volta essere tanto forte, qualche volta appena, da riuscire a non soffrire, a ridere sopra la delusione stessa? E non potrebbero gli altri, la folla, quelli che non hanno bisogno dei miei stessi dottori, essere comprensivi qualche volta, evitare di giudicare, di formulare ed eseguire sentenze? Penso tutto questo, ma non lo dico al dottore, non ho il coraggio di dirlo, soggiogato e mansueto come la mia natura mi porta ad essere. Credo che tu sia consapevole, riattacca infine a dirmi, con estrema lentezza ed evidente fatica, come certi eventi, il ripresentarsi con maggiore frequenza di certi segnali, denuncino picchi di ipersensibilità che necessitano di essere tamponati, neutralizzati. Ritengo necessario incrementare la dose delle tue pillole. Per almeno sei mesi passeremo da due a tre, sempre tre volte al giorno, poi valuteremo la situazione. Tace ancora. Scrive sul libretto, forse si appunta il nuovo dosaggio. Sembra tutto. Resto ancora un po’ disteso. Chiudo gli occhi e ne approfitto per richiamare nuovamente le ellissi mobili che raffigurano il ronzio della mia mente, quell’armonia che mi calma e mi rasserena. Dei colpetti di tosse insistenti mi riportano alla realtà, mi segnalano che il mio tempo si è esaurito. Io e il dottore ci guardiamo, chino appena la testa, poi esco dallo studio. Attraverso la sala d’aspetto e mi ritrovo di nuovo in strada.
Cammino lentamente, filtro tra la gente che incontro senza che nessuno mi degni di uno sguardo, come generalmente accade, salvo quelle poche volte che qualcuno si accorge di quanto sgraziato io sia e mi fissa pietosamente, ma raramente ormai con scherno. Penso alle tre pillole aggiuntive, per tamponare i recenti picchi di ipersensibilità, ha detto il dottore. Ipersensibilità per la carenza di affetto nelle relazioni primarie. Ma se io ora la volessi questa ipersensibilità, se ne sentissi il bisogno? Magari prima o poi mi riuscirà di ridere delle mie delusioni. Magari prima o poi la mia illusione non mi deluderà. Magari accadrà per una volta che la mia illusione sarà magnanima. Fanculo alle pillole aggiuntive, mi dico, fanculo al dottore taciturno e a tutti i dottori. Vado verso casa. Vieni. Vieni con me. Sento ancora una voce seducente, proviene da una bella donna che mi guarda invitante.
