“Era un uomo che sapeva reagire agli imprevisti della vita, riteneva anzi che gli imprevisti non fossero un ostacolo alla vita, ma una indicazione precisa che la vita aveva deciso per una virata, aveva riservato un altro percorso.”
(Nella foto, Gian Lorenzo Bernini, Anima dannata, 1619)
Tra le cose veramente fastidiose della vita c’è da includere, con assoluta certezza, guidare all’alba verso Est e al tramonto verso Ovest. Quel dannato sole non ti fa vedere un accidente di niente, specie se il parabrezza è sporco, con la luce diffusa in tutte le direzioni, amplificata e pervasiva, scintillante come mille minuscole stelle splendenti di energia e materia. Quindi si va avanti alla cieca, tenendo la direzione e rallentando, nella speranza che davanti nessuno si fermi bruscamente. Con o senza occhiali da sole, è lo stesso, si allunga il collo verso l’alto nel tentativo di collocare il piano tra gli occhi e l’estremità inferiore dell’aletta parasole al di sotto della palla solare, così da evitare almeno i raggi diretti. Questi pensieri si affacciarono fugacemente nella mente di Giacomo Stammer mentre, saranno state le sette e trenta di mattina, si accingeva a percorrere il lungo cavalcavia che correva da Ovest verso Est tagliando praticamente di netto la città tra Nord e Sud. Ma c’era anche dell’altro nella sua mente, soprattutto dell’altro, che premeva e pulsava quasi senza sosta. Un po’ di sollievo dalla luce accecante cominciò ad arrivare nella parte discendente del viadotto, quando l’inclinazione della strada aiuta in maniera naturale l’aletta parasole a svolgere più efficacemente la sua missione. Ma il netto miglioramento si ebbe solo alla fine del viadotto, quando l’auto svoltò a sinistra, dopo aver seguito la rotonda centrale che agevolava le uscite. Finalmente niente più sole diretto nella strada tra le due file di palazzi. I pensieri di Giacomo Stammer poterono quindi rifocalizzarsi sull’altro, che poi era il motivo di quell’uscita in auto quella luminosa mattina di metà aprile. Qualche centinaio di metri diritto, alcuni isolati di percorso, poi l’auto girò a destra. Ancora il sole accecante, ma solamente per poco, senza che le rimuginazioni associate avessero il tempo di riprendere, limitandosi il tutto ad una sonora imprecazione. L’auto accostò in corrispondenza dello spazio libero riservato alla fermata dell’autobus e il parcheggio fu cosa facile e rapida. Un paio di persone in attesa dell’autobus osservarono Giacomo Stammer scendere dall’auto, aprire il portabagagli, estrarre il lungo borsone da palestra e metterselo a tracolla, sul lato destro, incamminandosi lungo il marciapiede. Non era uno sguardo particolare il loro, men che meno di rimprovero, avvezze com’erano a simili parcheggi, la loro era solo noia e spossatezza mattutina, forse sonno. Neanche Giacomo Stammer si curò di loro. Percorse meno di cento passi, si fermò all’altezza del cancello di ingresso al cortile di un palazzo e si appoggiò al muro con la schiena. Era carico come una molla. Si accese una sigaretta, tirò qualche boccata, assaporandole, poi gettò la sigaretta a terra. La fissò per un poco, ma evidentemente la cosa dovette sembrargli fatta male, perché si chinò a raccoglierla e si guardò intorno alla ricerca di un posto adeguato dove buttarla. Alcuni cassonetti per la raccolta differenziata dell’immondizia erano poco distanti, si diresse quindi verso uno di essi, spense la sigaretta contro l’involucro metallico e la buttò nell’apertura. Ritornò quindi al suo posto, ancora appoggiato di schiena. Una signora uscì dal cancello, rapida e decisa, verso chissà quale lavoro o impegno mattutino, attraversò immediatamente la strada e si incamminò lungo il marciapiede opposto, senza nemmeno accorgersi di lui. Un vecchio con un piccolo cane al guinzaglio comparve poco dopo. Il cane immediatamente si accorse della presenza a lato del cancello e si avvicinò scodinzolando ai piedi dell’estraneo, curioso forse della novità dell’odore. Il vecchio notò la manovra e seguì con gli occhi i movimenti del cane, sollevando poi lo sguardo dai piedi alle gambe, al borsone e al viso. Buongiorno, disse, il mio cane è un curiosone. Non ci fu risposta, quindi, dopo un momento di perplessità, il vecchio si allontanò borbottando lungo il perimetro del palazzo, per agevolare il cane nei suoi annusamenti e nei suoi bisogni. Per una decina di minuti nessuno attraversò il cancello, poi comparve un giovane, alto e in tuta da ginnastica, con uno zainetto sulle spalle. Puntò dritto verso un’auto parcheggiata quasi di fronte al cancello. Buongiorno professore, disse Giacomo Stammer alle sue spalle. Il giovane si girò verso la direzione dalla quale proveniva la voce. Giacomo Stammer sorrise e premette il grilletto del fucile da caccia, senza estrarre l’arma dal borsone. Si aspettava che una vampata di fuoco e pallini ne squarciasse l’estremità, dirigendosi verso il corpo del giovane, ma non successe niente. La sorpresa fu grande. Premette ancora il grilletto. Ancora nessun fuoco né boato. Inceppato, pensò, bestemmiando dentro di sé. Il giovane, il professore, non si era accorto di niente e guardava interrogativo il suo interlocutore. Buongiorno, desidera? Giacomo Stammer era un uomo che sapeva reagire agli imprevisti della vita, riteneva anzi che gli imprevisti non fossero un ostacolo alla vita, ma una indicazione precisa che la vita aveva deciso per una virata, aveva riservato un altro percorso. Pensò ad Alice. Doveva essere merito suo, forse era meglio così. Con ritrovata calma, questa volta senza sorridere, confessò al professore il suo intento. Ho un fucile da caccia nel borsone, disse, sollevandone di poco la lunga canna, avevo deciso di ammazzarti, brutto stronzo figlio di puttana, animale. Omise di parlare dell’inceppamento. Il professore sbiancò, pavido nella sua avvenenza. Ma lei chi è? Cosa vuole? Balbettò. Ma ci ho ripensato, per tua fortuna, continuò Giacomo Stammer. Non meriti che mi sporchi le mani con te, per il momento. Lascia la scuola, non farti più vedere in giro, la prossima volta che ti trovo sulla mia strada ti ammazzo, quanto è vero Iddio. Si fermò ancora qualche secondo, per essere sicuro che il professore avesse ben compreso il significato delle sue parole, poi lo lasciò solo, impietrito, quindi si incamminò senza fretta lungo il marciapiede, nella direzione dalla quale era arrivato.
In gran parte colpa del divano, naturalmente. Chi ha inventato il divano non voleva certo creare un sostituto del letto, quindi il divano non è fatto per dormirci tutta la notte. Magari va bene per stendersi un poco, rilassarsi, appisolarsi per un po’ di tempo, ma dormirci sopra a lungo assolutamente non è il caso. Il motivo principale del mancato sonno era però un altro, quello stesso motivo che aveva portato Giacomo Stammer a scegliere il divano per passarci la notte, pur nella consapevolezza che non fosse una scelta felice. Necessaria però lo era, la scelta, a meno di non voler uscire di casa praticamente nel cuore della notte. Si era alzato dal letto, le aveva detto per la seconda volta vaffanculo, senza gridare però, per non svegliare Alice che dormiva nella sua stanzetta proprio di fronte a quella matrimoniale, con entrambe le porte di accesso lasciate aperte. La sua Alice non meritava tutto questo, non poteva fare chiassate. Si era quindi trasferito nel salone, distendendosi sul divano, incazzato nero. E proprio lì, sul maledetto divano, aveva recitato sottovoce una sequela infinita di parolacce indirizzate a sua moglie. Erano rientrati verso mezzanotte da una cena a due, menu di pesce, calice di vermentino di Sardegna ghiacciato, candelina accesa sul tavolo, conversazione forse banale ma innocua, nessuna nube nell’aria. La babysitter diciottenne, una ragazza figlia di amici con un appartamento nello stesso condominio, aveva da un pezzo convinto Alice ad andarsene a letto e li aspettava sfogliando un libro preso a caso dalla libreria. Era andata via subito, ringraziando per la paga ricevuta. Nel letto lui aveva cercato di assumere la sua posizione preferita per mettersi beatamente a dormire, dopo aver augurato la buonanotte, doverosamente. Stava per prendere sonno quando aveva avvertito dei singhiozzi sommessi, la cui origine aveva faticato inizialmente ad individuare, per infine realizzare che era sua moglie ad emetterli. Aveva acceso la abatjour, convinto si trattasse di un malessere. Che succede, ti senti male? Aveva detto. Non ricevendo risposta, vedendo gli occhi sbarrati e la postura rigidamente diritta si era preoccupato non poco, reiterando la domanda. Mi ha lasciata, era stata infine la risposta stentorea, mi ha lasciata, per poi dare la stura ad un pianto silenzioso. Chi? Di cosa parli? Aveva biascicato lui. Roberto, Roberto De Maria, era stata la risposta, faticosamente sillabata. Chi cazzo è Roberto De Maria? E cosa ti ha fatto? Aveva chiesto, tentando di capire. Il professore di educazione motoria di Alice, Roberto De Maria, mi ha lasciata. Parole dette di corsa questa volta, come una liberazione. Il professore di Alice? E che c’entra? Domande fatte con un tono misto di perplessità e noncuranza. Non capisci mai un cazzo, non ci arrivi mai tu alle cose davvero importanti, la secca e questa volta incazzata risposta, seguita ancora dal pianto silenzioso. Dopo una pausa, necessaria per ragionare e realizzare, lui aveva infine recitato la conclusione alla quale era giunto. Cioè, mi stai dicendo che hai avuto una storia con questo professore, Roberto De Maria, che poi lui alla fine ti ha lasciata e adesso ci stai così male da piangerci e confessarmelo? Nessuna risposta aveva interrotto il lamentoso pianto. Era stato a quel punto che lui aveva inveito con il duplice vaffanculo, intervallato dallo scendere dal letto, aveva lasciato la stanza e si era trasferito sul divano. Un professore. Di Alice. Era partita la litania di imprecazioni. Non capisci mai un cazzo, non ci arrivi mai alle cose davvero importanti, questo aveva detto lei, un concetto che già era stato più volte espresso in precedenza durante il matrimonio, con diverse varianti. Non prima di sposarsi né appena sposati, naturalmente. Allora lei era sempre gentile, serena, piena di attenzioni, premurosa, lo ammirava perfino, per la sua capacità di avere le mani d’oro, diceva, perché qualunque cosa facesse di manuale sapeva raggiungere risultati sorprendenti. Questo metteva in secondo piano la qualità del suo lavoro primario, quello per vivere e contribuire al bilancio familiare, quello di impiegato al catasto comunale, con generiche e non impegnative funzioni di archivista. Lavoro conquistato grazie al suo diploma di ragioniere, raggiunto con un anno di ritardo e col minimo voto, insieme al sovrumano sforzo per procacciare un pacchetto significativo di voti ad uno dei candidati sindaci, che poi una volta eletto aveva espresso tangibilmente la sua riconoscenza favorendo la sua assunzione nell’ambito dei servizi comunali. Lei era laureata invece, in giurisprudenza, e collaborava già prima che si sposassero con uno studio legale affermato. La virata verso una minore considerazione ai suoi occhi, agli occhi di lei, era stata graduale, iniziata un paio d’anni dopo la nascita di Alice. Prima c’era stata una sorta di accondiscendenza benevola verso sue dichiarazioni e suoi giudizi, dettati più da istinto e dalla pancia che da riflessioni attente. Poi una critica sempre più pungente a certi suoi ragionamenti, comportamenti e decisioni, quasi che non le andasse bene mai niente. Infine si era arrivati ad un malcelato disprezzo verso le sue idee, la sua capacità razionale e la banalità del suo lavoro. Non lo capisci proprio, non ci arrivi proprio a questo concetto, ma che cazzo dici?, meglio lasciar stare, le cose cervellotiche non sono per te, non riesci ad andare oltre il tuo mestiere di archivista, le cose importanti sono al di là delle tue capacità… Le mani d’oro erano diventate un ricordo lontano. Eppure in generale la vita gli sembrava scorrere tranquilla, nel solito tran tran, sembrava esserci anche ancora intesa a letto. Puttana, recitò nuovamente Giacomo Stammer, rigirandosi per l’ennesima volta sul divano. Voglio proprio vederlo questo Roberto De Maria, si disse, quasi che un colpo di genio l’avesse afferrato. Prese il cellulare che aveva posato a terra e digitò il nome sul motore di ricerca. Ne comparvero riferimenti di tutti i tipi, avvocati, calciatori, attori, operai, commercianti e chi più ne ha ne metta, in località e città più o meno distanti. Provò a perfezionare la ricerca, professore. Immediatamente i riferimenti si ridussero. Aggiunse il nome della città, la lista si accorciò ulteriormente. Eccolo! Deve essere lui. Professione: docente di educazione motoria. Le precedenti attività comprendevano una lista di squadre di basket nelle quali aveva in precedenza militato, di livello regionale, alcune delle quali Giacomo Stammer conosceva di nome. La foto mostrava un giovane di circa trentacinque anni, altissimo, aitante, slanciato, avvenente. Bell’uomo, indubbiamente, il figlio di puttana, dovette riconoscere. Lui non poteva certo competere a quel livello di fisico, con la sua altezza media, il corpo massiccio, la calvizie incipiente e la pancetta da sedentario. Posò violentemente a terra il cellulare, dove il colpo fu attutito dal tappeto. Se l’è trovato bene il compagno, la stronza. Magari è pure intelligente e perspicace, ai suoi occhi. Si devono essere conosciuti a scuola, la madre ancora bonazza e il giovane stallone. Sentì una fitta al petto, mentre diceva queste cose. Con tante donne che potevi avere, proprio mia moglie sei andato a stuzzicare? Stronzo figlio di puttana. Sentiva la rabbia montare, verso sua moglie e verso il professore. Puttana lei e stronzo figlio di puttana lui. Pensò di rientrare in camera, avventarsi sulla moglie e riempirla di botte fino ad ammazzarla. Si trattenne, però, con uno sforzo non da poco, per il pensiero di Alice che dormiva nella camera accanto. E sei stata pure lasciata, alla fine. Usata e lasciata. Certo, perché uno stronzo figlio di puttana come quello, quel superuomo del cazzo, le donne deve sicuramente trattarle usa e getta. Figlio di puttana, stronzo, animale, non sai nemmeno tenere il tuo affare al suo posto, bestia senza rispetto. La rabbia di Giacomo Stammer si indirizzò progressivamente sempre più verso il professore Roberto De Maria. La sua mente si oscurò. Alice fu ricacciata in fondo al buio. Il divano era scomodo e bollente. Riprese il cellulare da terra. Erano le cinque. Riandò alla foto del professore per controllare la presenza di altri dettagli. Trovò l’indirizzo di casa. La rastrelliera con i suoi due fucili da caccia era proprio di fronte al divano.
