Iacopo e Belinda

“Come argomento della mia conferenza odierna ho scelto, per così dire, il danno che reca all’umanità l’uso del tabacco.”

A.P. Čechov

(Nella foto, Tivadar Kosztka, Il vecchio pescatore, 1902)

I fatti che mi accingo a narrare, che ripercorrono la storia dell’amore tra Iacopo e Belinda, Iacopo figlio di Bartolomeo e Tessa, Belinda figlia di Puccio e Gemma, risalgono a cinquant’anni prima che io nascessi e mi sono stati riportati da mio nonno Ranieri, più volte durante la mia infanzia e la mia adolescenza. Come sempre premetteva prima di iniziare il suo racconto, lui non era stato testimone diretto delle circostanze, dei fatti, delle trame, perché anche di trame si era trattato, e delle persone che avevano fatto da scenario all’ideazione, alla messa in atto e all’evolversi della storia d’amore tra Iacopo e Belinda, nonché all’epilogo della stessa, naturalmente. Mio nonno era il terzo di cinque figli viventi, due maschi e tre femmine, ai quali ci sarebbero stati da aggiungere altri quattro figli, due maschi e due femmine, morti per malattie varie prima che giungessero a compiere il loro primo anno di vita. Per la verità, dei cinque figli viventi tre erano figli della stessa madre, la mia bisnonna Imelda, esattamente il primo fratello, la prima sorella e mio nonno, mentre le due altre femmine erano figlie una alla seconda moglie del mio bisnonno, che di nome faceva Nubaldo, e una alla sua terza moglie. Dei morti, invece, una femmina era la figlia minore della mia bisnonna, un maschio era il primo figlio della seconda moglie, un maschio e una femmina erano il primo e la terza dei figli della terza moglie. Le tre mogli del mio bisnonno, così mi è sempre stato riferito, erano inoltre sorelle. Alla morte della sorella maggiore, morta nel sonno ancora nel pieno delle sue energie, la seconda sorella, ancora nubile, aveva preso il posto della prima, in parte per prendersi cura dei nipoti ancora piccoli e in parte perché da sempre innamorata del mio bisnonno, che all’epoca pare fosse assai bello e prestante. Alla morte della seconda sorella, durante un incidente al lavoro nei campi o forse per il morso di una vipera, ho avuto in merito versioni vaghe e discordanti, la terza sorella, che nel frattempo aveva avuto la sventura di sposarsi con un uomo dedito al vino e alle donne ma la ventura di rimanere vedova dopo solo due anni, senza avere avuto figli, subentrò felicemente al ruolo che era stato delle sorelle maggiori, che sapeva essere state innamorate e felici del loro matrimonio. La terza moglie si prese cura dell’intera famiglia, figli e nipoti, e del mio bisnonno fino alla sua morte, del mio bisnonno voglio dire, al quale lei sopravvisse di quindici anni e sette mesi. Il mio bisnonno come occupazione principale faceva il contadino, sia di un po’ di terreno di sua proprietà, ereditato dal ramo materno, che presso terreni di signori e grandi proprietari durante le stagioni di mietitura e raccolta di frutta e olive, insieme a una moltitudine errante di altri stagionali. Ma era anche stagnino, nei periodi di poco lavoro in campagna andava in giro con un carretto di attrezzi vari e aspettava che lo chiamassero per aggiustare o stagnare secchi, padelle e pentole. Un buon mestiere, che trasmise anche a mio nonno. Voglio precisare che mio nonno Ranieri apparteneva al mio ramo materno, era cioè padre di mia madre, perché non ho mai conosciuto mio nonno paterno Aremberto, il padre di mio padre, morto in giovane età lasciando quattro figlie femmine e un solo figlio maschio, l’ultimo, mio padre, che all’epoca della morte aveva solo tre anni. Fortuna aveva voluto che suo fratello, il fratello di nonno Aremberto, sposato e senza figli, si fosse preso cura dei nipoti e della cognata, accogliendo tutti in casa sua, con attenzioni particolari per la cognata stessa, mia nonna Linoria, con la quale ebbe finalmente anche un figlio e una figlia propri, pare con piena comprensione da parte della moglie legittima. Vorrei doverosamente precisare, a questo punto, quasi a chiusura del cerchio, che mio nonno Ranieri e mio nonno Aremberto non erano del tutto estranei fra di loro, a quanto si è sempre mormorato in casa mia, essendo stati il nonno del primo e la nonna del secondo a loro volta cugini di primo grado, figlio e figlia di due fratelli.

Tornando ora alla storia dell’amore tra Iacopo e Belinda, testimone diretto delle loro vicende era stato il fratello di mio nonno, il maggiore in assoluto della nidiata di nove figli del mio bisnonno Nubaldo, contando viventi e non viventi, figli e figliastri. Naturalmente, come primogenito maschio si chiamava Bidollio, nome del nonno paterno, padre di suo padre. Di quattro anni maggiore di mio nonno, era stato suo maestro, protettore e complice nell’arte della vita, condividendo insieme avventure, vittorie e sconfitte, gioie e dolori, in dose assolutamente maggiori che con le tre sorelle. A detta di mio nonno, sulla veridicità dei racconti di suo fratello Bidollio si poteva mettere tranquillamente la mano sul fuoco, perché mai in tutta la sua vita aveva mentito, esagerato o falsato qualcosa, men che meno inventato qualche storia. Per quanto strabilianti, incredibili o sorprendenti potessero sembrare, le cose che lui riportava erano la semplice e pura verità. E se qualche volta io o altri, ai quali mio nonno raccontava di eventi e fatti che gli erano stati riferiti da suo fratello, rilevavamo qualche discrepanza tra qualcuna delle sue versioni narrate, piccola o grande che fosse, cruciale o secondaria, e la facevamo notare, lui ci rifletteva un momento sopra, come se facesse lo sforzo di ricordare esattamente le parole usate da suo fratello, per poi concludere inevitabilmente che sì, forse poteva essere accaduto che ci fossero state delle varianti nei suoi racconti, ma questo era assolutamente da addebitarsi alla sua memoria fallace, alla sua età e alla sua interpretazione delle parole di suo fratello, perché mai nei racconti di suo fratello ci erano state deviazioni da una sola, unica e cristallina versione. Il perché il fratello di mio nonno, il mio prozio, se non mi inganno nell’assegnare i gradi di parentela, fosse così vulcanico nella mole e nell’eccezionalità dei suoi racconti, è dovuto al fatto che lui, contrariamente al resto della nostra famiglia e di tante altre famiglie, a quanto mi risulta, all’età di soli sedici anni lasciò la famiglia e le nostre contrade per andare a conoscere il mondo, come mi è stato tramandato essersi espresso. Pare che abbia viaggiato in lungo e in largo, per terre lontane giorni e giorni di viaggio, mesi forse, verso nord e verso est soprattutto. Questo perché, al momento di partire, dovendo decidere da quale parte dirigersi, si era affidato alla sorte e, fatto un segno su una rudimentale trottola di legno, l’aveva messa energicamente in rotazione su una tavola orizzontale, constatando che quando si era fermata la direzione indicata dal segno era nord-est. Aveva attraversato e conosciuto luoghi e persone profondamente diverse da noi, nei tratti fisici e soprattutto nelle modalità comportamentali, nelle usanze, nelle regole, nelle leggi e nella morale. Era poi riapparso, a distanza di quasi quindici anni dalla partenza, sempre arrivando da nord-est, una mattina di primavera, in piena salute e ben vestito, provvisto di una quantità di danaro in oro sonante che gli consentì di vivere tranquillo e senza dover più lavorare, se non per piccole cose fatte più per piacere che per necessità, per tutto il resto della sua vita, assolutamente da scapolo, per sua inappellabile decisione, nonostante le pressioni ricevute dai familiari. Mai però, pur essendo più che loquace su tanti altri episodi della sua vita e sugli avvenimenti dei quali era stato testimone, stando a quanto riferito da mio nonno, volle minimamente accennare ai lavori svolti per vivere e viaggiare, alle fonti dei suoi guadagni e alle modalità con le quali aveva conseguito il suo benessere. Erano quindi molte le storie che giravano, le supposizioni e le illazioni, mio nonno Ranieri me ne ha raccontate diverse, ma lui personalmente non aveva mai chiesto al riguardo niente a suo fratello, rispettando il suo volere e la sua omertà, senza propendere per una o l’altra delle voci di popolo. Mio nonno venerava suo fratello ed era disposto a giurare che sicuramente lui aveva ricevuto quel che aveva meritato, in maniera magari fortuita, ma assolutamente mai men che lecita. Su questo punto, però, mia madre Imelda, ovviamente aveva ricevuto il nome della nonna, solitamente in pieno accordo con suo padre, dissentiva completamente.

Mia madre era dolcissima, non ricordo che solo parole gentili da parte sua, anche nei rimproveri sapeva essere giusta ma comprensiva e accorta. Sapeva anche bene come trattare mio padre, Aremberto anche lui, che aveva un carattere più spigoloso e fumantino, ma che con mia madre diventava un pezzo di pane, e non certo per una sorta di sottomissione, perché in casa comandava lui e non ce n’era per nessuno, ma perché lei sapeva prenderlo, sapeva ragionarci, sapeva fargli vedere l’altro aspetto della medaglia, rabbonirlo e portarlo a riflettere, a decisioni più giuste e ponderate. Lei aveva anche ricevuto una certa educazione al vicino convento delle suore, dove andava ad aiutare sua zia Mattea, figlia della seconda moglie mio bisnonno Nubaldo, che lì si occupava dei lavori di cucina, assistendo la suora che svolgeva le funzioni di cuoca. Quando non era impegnata nei suoi doveri di aiutante in seconda, mia madre gironzolava per il convento, parlava con le suore, si metteva ad ascoltarle mentre pregavano e chiacchieravano, si faceva voler bene. E quelle le insegnavano chi una cosa e chi l’altra, sapeva quindi ricamare, tagliare la stoffa per fare vestiti, cucire, rattoppare, stirare, ma soprattutto sapeva leggere, scrivere e far di conto. Era lei l’amministratrice della casa, nell’ambito della quale mio padre rivestiva il ruolo di fornitore di reddito per i bisogni di tutta la famiglia, con il suo doppio lavoro di contadino e carpentiere. Mio padre si chiamava Parisio, che poi era stato il nome di suo nonno paterno, e aveva appreso il mestiere di carpentiere non da suo padre, ovviamente, ma dal suo zio patrigno, che del lavoro dei campi non aveva mai voluto occuparsi e che faceva il carpentiere a tempo pieno. Mio padre, che aveva un affetto più che filiale per il suo zio patrigno, nutriva una ammirazione sconfinata per suo suocero, mio nonno Ranieri, amico fraterno sia del suo proprio padre che del suo zio patrigno, ed era stato proprio quest’ultimo a concordare il matrimonio tra i miei genitori, che s’erano frequentati assai fin da piccoli. Di conseguenza, quando mia mamma dissentiva da mio nonno in merito alla provenienza delle fonti del benessere dello zio Bidollio, anche in presenza dello zio stesso, che in risposta se la cavava semplicemente accennando un sorrisetto ironico, sostenendo che la ricchezza poco o tanta che sia non può derivare dall’onesto lavoro ma solo da comportamenti al di fuori della legge, mio padre si schierava nettamente dalla parte di mio nonno, pur rispettando e lasciando piena libertà di espressione alle opinioni di mia madre.

In ogni caso, il tema della provenienza della ricchezza del mio prozio era totalmente estraneo alla vicenda di Iacopo e Belinda, alla storia del loro amore, essendo essa iniziata quando lui aveva circa tredici anni e durata più o meno due anni e mezzo, prima che lui partisse per la sua avventura nel mondo ed era ancora qui da noi. Per l’esattezza, non proprio qui da noi, altrimenti sarebbe stato difficile che lui fosse testimone diretto di qualcosa o di qualcuno senza che suo fratello Ranieri, mio nonno, non condividesse la stessa esperienza. Il fatto è che all’epoca, da almeno un anno, il mio bisnonno Nubaldo lo aveva spedito a servizio presso un convento di monaci benedettini, distante quasi tre giorni di viaggio da casa, per guadagnare qualcosa e ricevere un po’ di insegnamenti religiosi, non tanto al fine di imparare a leggere e scrivere, ma con la non tanto nascosta speranza che la vita nel convento lo attraesse e che quindi decidesse di farsi monaco anche lui. Perché lui aveva una intelligenza pronta e acuta, che avrebbe sicuramente ben speso, a giudizio del mio bisnonno, nella carriera monacale, facendosi strada forse fino a diventare anche priore di un convento, carica prestigiosa, di grande autorità e agiatezza. Rimaneva mediamente un paio di mesi di seguito presso il convento, per poi ritornare a casa per un paio di settimane, quindi ripartire. I monaci lo impiegavano in mansioni varie, oltre che fargli da maestro, inviandolo spesso nei villaggi più prossimi per incarichi vari o come messaggero, fu quindi in questo modo che poté entrare in contatto con l’ambiente e le persone che costituirono lo sfondo delle peripezie, è proprio il caso di dire, che coinvolsero Iacopo e Belinda. La sua permanenza presso i monaci era iniziata con grande e reciproca soddisfazione e sembrava andare nel migliore dei modi, stando a quanto lui stesso riportava in famiglia nei suoi periodi di rientro, altrimenti non sarebbe rimasto lì per tanto tempo. Così quando improvvisamente lui, rientrato a casa dopo quasi tre mesi continuativi passati al convento, dichiarò che non vi sarebbe più tornato, tutti rimasero sorpresi, suo padre per primo, ma a nulla valsero le insistenze per convincerlo a ritornarvi né a spiegare i motivi di questa decisione, apparsa quanto meno inaspettata, se non ingiustificata. Di lì a qualche mese prese poi la sua decisione di partire definitivamente. Mio nonno Ranieri, forse il più felice ad accogliere la sua decisione di non ritornare al convento, visse con dolore la successiva separazione, ma rispettò la scelta del fratello con adolescente coraggio. Quando, anni dopo, il mio prozio era ritornato da tempo dal suo lungo peregrinare, venne a conoscenza della storia di Iacopo e Belinda, pur non avendo avuto nessuna esplicita indicazione da parte di suo fratello, ne ricavò la convinzione, che poi in maniera velata trasmise a me nei suoi racconti, che l’intera vicenda avesse avuto in qualche modo a che fare con la decisione improvvisa e mai chiarita di lasciare il convento e la prospettiva di una carriera monacale.  

Mio nonno Ranieri sapeva raccontare. Sapeva coinvolgere nei suoi racconti, catturare l’attenzione di chi lo ascoltava, con una parlata vivace e mutevole, che ammaliava e sorprendeva, creava tensione e aspettative. Ogni suo racconto era un’avventura, sia quelli nuovi che quelli ripetuti. Anzi, quelli ripetuti, che pure avrebbero potuto annoiare se raccontati da altri, erano quelli più sorprendenti, perché ogni volta c’era un particolare in più, qualcosa di nuovo o di diverso, una diversa chiave di lettura, un’enfasi cangiante. Una caratteristica specifica del suo modo di raccontare era che raramente seguiva un percorso lineare, invece, pur non perdendo mai il filo del discorso, la rotta di quanto stava esponendo, faceva ampie digressioni, intraprendeva ardite deviazioni, ramificava il discorso in molteplici rivoli, per poi ritornare al flusso principale del racconto. Ma la cosa più sorprendente era il suo gioco con il tempo della narrazione. Quasi mai seguiva il normale percorso temporale dei fatti che esponeva, nel loro naturale e progressivo evolversi nel tempo, dal passato lontano al passato meno recente, fino al passato più prossimo o addirittura al presente, a seconda dei casi. L’inizio del suo racconto poteva collocarsi in un momento qualsiasi dell’arco temporale della vicenda narrata, per poi ripercorrere a ritroso gli eventi fino al loro istante di partenza, quindi l’esposizione veniva ricondotta in maniera pindarica al contesto di inizio, per poi procedere successivamente in avanti. Addirittura, l’inizio poteva essere l’epilogo stesso della storia, che veniva narrata interamente a ritroso, ma senza per questo togliere nulla alla tensione narrativa, nonostante il finale fosse ormai stato rivelato, risiedendo la sorpresa proprio nell’incipit. Oppure poteva esserci un balletto tra passato remoto e passato prossimo, tra rimandi e anticipazioni. Il tempo veniva manipolato, invertito e stravolto, dilatato e ridotto, accelerato e rallentato. Era eccezionale mio nonno Ranieri.    

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