Il verme

“Tra l’idea e la realtà, tra la motivazione e l’atto, cade l’ombra.”
T. S. Eliot

(Nella foto, Henri de Toulouse-Lautrec, Il bacio a letto, 1892–1893)

Ma come te lo devo dire, tesoro? Ripeté per l’ennesima volta a sua moglie. Ti amo, ti amo e ti amo. Te lo devo dire in inglese, in turco o con la lingua dei segni come tra sordomuti? Ti a-mo, ti a-mo. Aveva la bocca secca e la testa gli faceva male. Erano due ore che combatteva con sua moglie a colpi di spiegazioni, rassicurazioni e promesse, ma lei era ancora lì che parlava, rivolgeva domande e piangeva. La domenica mattina, che avrebbe dovuto essere tranquilla e rilassante, gioiosa e ritemprante, in vista della successiva settimana di lavoro, era iniziata invece nel peggiore dei modi. E adesso erano sempre lì, nella loro camera da letto, ai due lati del letto ormai disfatto e ridotto ad un groviglio di lenzuola e copriletto, lei che se ne stava distesa e di spalle a singhiozzare proprio sul ciglio del materasso, mentre lui in piedi dall’altra parte che si protraeva verso di lei e agitava convulsamente le mani nello sforzo insieme fisico e mentale di calmarla e convincerla. Ti amo, dichiarò ancora. La prossima volta, te lo prometto, te lo giuro su quello che tu vuoi, ti sparerò dritto al cuore, senza esitazioni.

Tutto era cominciato con lui nascosto nel lato buio dello spiazzale del parcheggio, tra due suv scuri che lo mimetizzavano del tutto, appostato e guardingo, determinato più che mai, sicuro del suo piano. L’aveva organizzato nei dettagli, accuratamente, non poteva fallire, non doveva fallire. Era una certezza, la sua, che quello che doveva accadere sarebbe accaduto, e quella notte stessa. Gli indizi erano stati molti, ripetuti e variegati. All’inizio non vi aveva fatto caso o non aveva intuito la vera origine delle piccole tracce rilevate. Era stato solo successivamente, dopo un certo tempo, a posteriori, che aveva guardato i fatti dalla giusta angolazione, interpretato correttamente i segnali, collegato le cose. Quindi, alla luce della nuova e illuminante rivelazione, aveva letto gli elementi emersi nel loro vero significato, lampante e colpevole. Le sue pantofole, per esempio, da lui lasciate vicino al letto la sera, prima di uscire per il turno di notte, perfettamente allineate e con la destra a destra e la sinistra a sinistra, ritrovate il mattino dopo sì nel medesimo posto, ma con la destra a sinistra e la sinistra a destra. Ancora, il suo profumo, il cui livello nella boccetta aveva casualmente notato prima di uscire essere perfettamente allineato con la linea superiore della scritta del nome della marca, cosa che gli aveva fatto pensare ad una fortunata coincidenza scaramantica, ritrovato al rientro diminuito di un millimetro circa, forse meno, ma chiaramente e misteriosamente evidente. Oppure, e questo era accaduto più volte, ritrovare qualche strano capello sul suo pettine, al mattino, sicuramente non suo e neppure di sua moglie, l’avesse magari usato lei per sbaglio, essendo certo al mille per mille di averlo ben ripulito la sera prima, dopo l’ultima aggiustata al suo taglio al momento di uscire. Fatti di questo tipo, insomma, ognuno dei quali, nella sua innocenza, poteva avere cento plausibili spiegazioni. Almeno finché una volta, mentre pensava a tutt’altro, forse addirittura stava parlando con altri di chissà quali argomenti, gli era apparsa la più evidente delle spiegazioni, quasi come una rivelazione. A quel punto tutto poteva essere letto in maniera semplice, magica, lampante. Di conseguenza ogni analogo indizio, ogni successiva traccia, ogni recente anomalia, letta nell’ottica della nuova narrazione andava a fornire una ulteriore prova, si incasellava perfettamente nella giusta posizione, costituiva un nuovo tassello della trama ormai disvelata. E ad ogni nuova conferma, ad ogni infinitesimo incremento della certezza acquisita, aumentava la pena, la delusione, il dolore. Insieme con il desiderio di rivalsa, naturalmente, di vendetta. Quindi il piano, l’appostamento.

Si era chiesto più volte chi poteva essere lo stronzo, il bastardo che veniva ospitato nella sua casa, nel suo letto, che si infilava le sue pantofole, utilizzava il suo profumo, si pettinava col suo pettine, si godeva sua moglie. Un suo collega probabilmente, oppure uno di quelli con il quale il suo lavoro la portava a contatto, un cliente o un fornitore. E se fosse stato un amico comune? Un amico di famiglia, uno che conosceva anche lui? Un traditore figlio di puttana che si fingeva amico, col quale aveva rapporti, parlava, cenava insieme, giocava a calcetto. Forse ridevano anche alle sue spalle, di lui e di quanto fosse fesso. In fondo, non avrebbe però fatto una gran differenza sapere chi fosse, che viso avesse, che corporatura, quali virtù e pregi lo avessero eletto a suo antagonista, a suo sostituto. Le sue responsabilità e la sua colpa erano il determinante principale, non certo la sua carta di identità. Con sua moglie aveva continuato come se niente fosse, come se non avesse intuito, compreso, quanto avveniva alle sue spalle, il tradimento in atto, i tradimenti perpetrati e quelli ancora da consumare. Quella avrebbe negato, si sarebbe finta indignata, ingiustamente accusata e perseguitata, avrebbe fatto teatro, senza prove concrete avrebbe fatto la martire, sarebbe passata dalla colpa al ruolo di vittima, con lui nelle vesti di perfido inquisitore. Troppo comodo, troppo ingiusto. Andavano colti sul fatto, senza possibilità di equivoco e di appello, puniti lì sul momento, a caldo. Come essere certo della notte in cui si sarebbero incontrati di nuovo, in cui l’altro sarebbe ricomparso nella sua casa, entrato ancora nel suo letto, accanto a sua moglie? Incaricare un vicino di fare la guardia, la spia, di avvisarlo appena l’altro si faceva vivo? Troppa pubblicità, troppo clamore. Allora aveva chiesto in azienda di essere esonerato dai turni di notte per un certo periodo, in maniera che non potessero esserci incontri clandestini per un bel po’. Aveva detto alla moglie che la produzione in fabbrica era calata e che per un mesetto i turni notturni erano sospesi. Un mese di astinenza forzata nella relazione illegittima. Poi aveva annunciato la prima data di ripresa dei suoi turni di notte. Avrebbero colto al volo l’occasione, sicuro come la morte.

Le due di notte. Le due e mezza. Avvertì dei rumori di passi. Un’ombra entrò nello spiazzale, ma non si diresse in linea retta verso l’ingresso del palazzo. Strisciava lungo il vialetto perimetrale, come i gatti d’estate alla ricerca della frescura lungo i muri. Fu solo ad un paio di metri dal portone che la luce sull’ingresso illuminò la figura che avanzava, permettendo di distinguere un uomo che indossava jeans e felpa, col cappuccio calato sulla testa. Non era possibile vederne il volto, ma almeno fu un parziale sollievo non riscontrare elementi di familiarità nell’abbigliamento indossato, nella corporatura e nelle movenze. L’uomo si fermò presso la griglia dei pulsanti dei citofoni. Era di spalle e il suo corpo copriva il dettaglio dei suoi movimenti. Sicuramente dovette premere un pulsante. Sicuramente era il suo. Sicuramente sua moglie era lì pronta per aprire il portone. Non ci furono scambi di parole. Il click della serratura si udì distintamente nel silenzio generale della notte. L’uomo scomparve nell’atrio del palazzo, avendo cura di accompagnare la chiusura del portone con la mano, affinché non ci fosse alcun rumore nella chiusura forzata dei battenti. Tutto procedeva secondo i piani. I due pesciolini avevano abboccato. Si disse che mezz’ora di attesa sarebbe stata sufficiente, il tempo di riabbracciarsi, scambiarsi due parole di cortesia, correre in camera da letto e prepararsi per le danze, cominciare le danze. Bastardo lui e puttana lei. Si morse le labbra per non bestemmiare a voce alta. Infilò la mano destra nella tasca del giubbotto che indossava e tastò la pistola. Non si intendeva molto di armi, ma sapeva benissimo che ormai su internet si può trovare ogni cosa di cui si possa aver bisogno. Accedere al dark web e trovare come rimediare un pistola e le relative pallottole era stato facile. Duemila euro per una semiautomatica Xesse calibro 22 long rifle da tirassegno, con due caricatori da dieci colpi. Era arrivata via corriere in una confezione resa anonima, da ritirare direttamente presso l’hub locale di smistamento del corriere. La forma e il contatto col metallo gli dettero una iniezione di adrenalina e di potenza. Alle tre in punto uscì dal buio del suo riparo e si diresse a passo rapido verso l’ingresso del palazzo. Aprì con la sua chiave e riaccostò silenziosamente il portone alle sue spalle. Salì a piedi per le scale. Al terzo piano, dove abitava, il pianerottolo era deserto e silenzioso. Il suo appartamento era l’ultimo dei quattro, quello più lontano dall’ascensore. Davanti al portoncino rimise la mano destra nella tasca del giubbotto e strinse la pistola, facendo scattare il pulsante della sicura. Aveva la chiave nella sinistra, la infilò nella toppa e con grande cautela e lentezza fece scattare la serratura. Entrò e richiuse piano il portoncino alle sue spalle. Si fermò un momento, al buio, per ascoltare eventuali rumori. Nulla. Si diresse verso la sua camera da letto. La porta era chiusa. La spalancò di colpo e rimase a gambe divaricate sulla soglia, pistola in pugno. Sul letto, alla luce soffusa di una delle due lampade da comodino, nudi e aggrovigliati fra di loro, stavano sua moglie e uno sconosciuto. Al rumore della porta che sbatteva erano sobbalzati e si erano girati verso di lui. Ora lo guardavano sorpresi e terrorizzati, pietrificati dalla paura. Lui mirò alla testa dell’uomo. Avrebbe ucciso prima lui e poi lei, si era detto, per darle il tempo di pentirsi. Stava per tirare il grilletto, quando un pensiero fulminante gli attraversò la mente. Ma ne vale la pena? Rovinarsi la vita per questo bastardo e per questa puttana? Alcuni lunghi secondi, poi abbassò l’arma. Vaffanculo, disse, non ne vale la pena, mi fate schifo. Girò le spalle e se ne andò.

Era stato a questo punto che si era svegliato. Vaffanculo, diceva, vaffanculo, non ne vale la pena, mi fate schifo. Sua moglie lo scuoteva energicamente. Smettila, svegliati, diceva, è solo un brutto sogno, calmati. E si era calmato, si era zittito, si era reso conto che solo di un sogno si trattava. Era lì nel suo letto, insieme a sua moglie. Ma immediatamente dopo era cominciato l’interrogatorio. Che stavi sognando? Con chi ce l’avevi? Aveva provato a fare il reticente. Un brutto sogno, aveva detto, drammatico, confuso, c’entravi anche tu però. Lei allora era stata ancora più interessata, incalzante, spietata, aveva chiesto dettagli, aveva preteso un racconto completo, dall’inizio alla fine, senza omettere alcun particolare, alcun pensiero, alcuna emozione. Lui era stato costretto a ripercorrere tutta la trama del sogno, dall’inizio alla fine. Aveva però fiutato il pericolo, l’insidia nascosta, le enormi potenzialità di reazioni pericolose che il sogno racchiudeva. Aveva cercato di buttarla sull’ironia, sull’assurdità dei sogni, sulla loro inconsistenza e irrealtà. Pensa un po’, aveva detto in conclusione, sorridendo, stavo per ucciderti. Ti amo, aveva aggiunto, e aveva cercato di baciarla. Lei era scattata come una molla. Mi ami? Tu saresti quello che mi ama? I sogni sono un riflesso della psiche, aveva detto, manifestano in modo prorompente quello che inconsciamente si pensa e non si ha la capacità o la forza di esplicitare a parole e con azioni. Tu sospetti nel profondo del tuo essere che io ti tradisca e vivi oniricamente questo presunto tradimento, gestendone i segnali e la tua reazione. Tu pensi che io ti tradisca, questa è la verità, altro che amarmi. Ma che stai dicendo tesoro, si era affrettato a replicare, io ho completa fiducia in te e mai e poi mai il pensiero di un tuo tradimento ha attraversato la mia mente. La diatriba sull’ipotetica idea del tradimento, sull’affermazione della sua esistenza e sulla sua negazione, si era trascinata a lungo, tra sottigliezze concettuali e cavilli verbali. Poi lei aveva attaccato su un altro fronte. Non ne vale la pena, hai detto, quindi per te io non merito neanche la tua vendetta, non valgo tanto da compromettere la tua tranquilla esistenza, merito solo il tuo disprezzo? E questo sarebbe amore? Ma che c’entra questo tesoro, aveva protestato? Certo che ti amo e tu per me hai un valore immenso. Ma un uomo non può costringere una donna a continuare a stargli vicino se lei non lo desidera più, aveva argomentato, non ha il diritto di ammazzarla perché lei lo vuole lasciare e preferisce un altro uomo. Una donna non è la proprietà di un uomo, che diamine. Non è questo il punto, lei aveva sostenuto, non cercare di cavartela con belle parole e tesi da manuale, nel sogno tu non mi hai ammazzata perché sei un uomo civile e rispetti le scelte di una donna, prova ne è che avevi architettato una spietata vendetta, ma perché proprio nell’imminenza del femminicidio più classico hai ritenuto che per te io valessi talmente poco, fossi così insignificante, da non valere che tu finissi nei guai per me. Questa è la verità, altro che amore. E giù lacrime, singhiozzi e lamenti. Ormai privato di ogni possibile argomentazione, svuotato di ogni energia, esausto, lui non faceva più altro che ripetere ti amo, ti amo, lo vuoi capire, ti a-mo, ti a-mo. È stato solo un sogno, un maledetto, semplice, ingenuo sogno. Guarda, se dovesse ancora capitarmi un sogno del genere, Dio non lo voglia, te lo giuro su quello che tu vuoi, ti sparerò dritto al cuore, senza esitazioni.

L’ho fatto sentire un verme, davvero, avresti dovuto sentire come implorava, come balbettava, mentre io facevo fatica a reggere la parte, a non scoppiare a ridere. L’uomo al suo fianco sorrideva divertito. Erano distesi sul letto uno accanto all’altro, alla luce soffusa di una delle due lampade da comodino, rilassati, lei con la testa sopra il braccio sinistro di lui, in una pausa dalle fatiche dell’amore. La porta della camera si aprì all’improvviso, violentemente. Lui era lì sulla soglia, a gambe divaricate e pistola in pugno, sogghignava. Lei sentì due colpi ravvicinati e chiuse gli occhi. Avvertì il sussulto del braccio sotto la sua testa. Silenzio per qualche secondo. Riaprì gli occhi, solo il tempo di accorgersi che ora toccava a lei. Tutto divenne buio.

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